venerdì 29 giugno 2012

Il tessuto della città

Dopo l’anticipazione del libro di Andrea Granelli continuano gli approfondimenti che Nòva dedica ai temi delle Smart Cities.

Alle origini della rete, scrive Luca De Biase, per spiegare internet si ricorreva alla metafora della città. Ora si progetta il futuro della città immaginandola come una piattaforma. “Una piattaforma che facilita la connessione tra le persone, favorisce la nascita di iniziative innovative, attrae talenti e capitali, incentiva comportamenti collaborativi, disegna la convivenza in modo consapevole delle esigenze della sostenibilità.” Dentro le piattaforme urbane l’abilitazione tecnologica sarà una precondizione, un fattore necessario ma non sufficiente. L’intelligenza delle reti risiede nella qualità dei nodi: coincide con l’intelligenza delle persone, dei servizi, delle soluzioni che le reti sono in grado di connettere.

La città contemporanea è un tessuto stressato da smagliature e strappi. Per questo la progettazione futura sarà soprattutto un lavoro paziente di rammendo e ricucitura, ha spiegato Marc Augé intervenendo al Festival dell’energia di Perugia. Una minoranza di individui vive il pianeta percorrendolo quotidianamente come fosse un’unica città. Mentre i gruppi umani che condividono lo stesso spazio urbano sono separati da barriere sempre piú complesse, che producono divisioni e approfondiscono le distanze. Il divario tra chi domina il mondo-città e chi soffre la frammentazione delle città-mondo tende ad aumentare. Non basta progettare sistemi di mobilità intelligente per ricucire le città: occorre riattivare il dialogo e la conoscenza reciproca. Costruire ponti tra le isole e risanare le lesioni del tessuto urbano. Trasformare i confini in soglie e studiare nuove strategie di attraversamento.

Il nostro cervello, spiega Roberto Cingolani, è un’architettura computazionale biologica e processa simultaneamente quantità di informazioni che richiedono una potenza di calcolo paragonabile a quella necessaria a gestire la rete internet. Al contrario degli apparati elettronici di circuiti integrati che supportano la rete, però, il cervello è un computer che funziona con un consumo energetico bassissimo. Le tecnologie dell’informazione hanno riorganizzato gli spazi del vivere e modificato in profondità l’interazione umana. D’ora in avanti l’innovazione tecnologica dovrà contribuire alla progettazione di ecosistemi e di architetture sociali in grado di porsi gli stessi problemi di sostenibilità e di abitabilità che interrogano la programmazione urbana. “La sfida che si prospetta adesso non è piú quella di rendere la trasmissione dell’informazione istantanea, ma di gestire e processare masse di informazioni simili a quelle abitualmente governate dal cervello umano con richieste energetiche comparabili a quelle dei sistemi biologici. Questa è la nuova sfida, che metterà insieme mondi tradizionalmente separati come scienze della vita, nanotecnologia, computer science, creando inannzitutto nuova cultura.”

La potenza economica del mondo si concentra nelle città. Oltre l’80% del Pil è urbano. La ricchezza conosce un inesorabile slittamento da Ovest verso Est. Est e Ovest del mondo, del resto, stanno maturando due idee diverse di sviluppo urbano. L’Europa e gli Stati Uniti, seppure con differenze interne, tentano di rendere intelligenti i tessuti urbani esistenti, attraverso un’applicazione delle tecnologie che dialoga con la stratificazione storica. Le aree emergenti, al contrario, progettano ex novo agglomerati urbani in grado di ottimizzare le risorse, di favorire la produzione e di garantire la vivibilità. Londra innerva il sottosuolo per potenziare le infrastrutture, in India si costruiscono 24 nuove città verdi. “A Tianjin Eco-City, una città verde che dovrebbe ospitare 250mila persone entro la fine di questo decennio, in via di realizzazione a 150 chilometri da Pechino, grazie a una partnership tra Cina e Singapore, è previsto l’utilizzo dei trasporti pubblici, della bicicletta o dei piedi per il 90% degli spostamenti.” Modelli diversi convergono nel tentativo di rispondere a esigenze simili: disincentivare i trasporti privati, razionalizzare quelli pubblici, risparmiare energia. Accordare lo spazio e il tempo della città allo spazio e al tempo degli uomini che la attraversano.


mercoledì 20 giugno 2012

L’uomo a misura di città



La tradizione utopica pensa la città come concretizzazione di un ideale. La rappresentazione della città è il risultato di una volontà di plasmare l’ambiente, fisico e sociale. Proietta sullo spazio urbano una natura filosofica, lo modella adottando l’uomo (una precisa idea dell’uomo) come misura. L’urbanista e l’utopista, l’architetto e il legislatore si muovono in spazi contigui, quando non sovrapposti. Il progetto urbanistico è il simbolo di una volontà di trasformazione e riorganizzazione. È una lotta contro le cose, contro l’inerzia che domina tanto la materia quanto gli uomini. Per l’urbanista utopico la città è una riduzione in scala del cosmo, o una riproduzione spaziale dell’immagine dell’uomo. La metafora antropomorfa è una costante che durante il Rinascimento accomuna trattati architettonici, testi utopici e rappresentazioni cartografiche. Johann Putsch nel 1537 mappa l’Europa seguendo i contorni di un corpo femminile: una carta che è l’eco grafica della città antropomorfa immaginata da Francesco di Giorgio Martini nei suoi Trattati (1492). L’uomo nel cerchio di Vitruvio offre lo schema di base per una topografia antropometrica. A margine dei testi di Vitruvio l’umanesimo sviluppa la sua riflessione sulle origini stesse della civiltà, sui fondamenti che organizzano il vivere civile dell’uomo.

Lo scultore inglese Antony Gormley ha compenetrato lo spazio urbano di San Gimignano dislocando le sue forme nelle pieghe della città. Ha rovesciato la prospettiva rinascimentale immaginando un uomo a forma di città. L’opera che dà il titolo a questa “esposizione diffusa” (ma esposizione in senso letterale, non solo mostra: collocazione di oggeti in uno spazio aperto, non protetto), Vettel, introduce nella città antropomorfa l’uomo urbanomorfo, composto da trentanove parallelepipedi d’acciaio sovrapposti. Dopo tante città che si presumono, e spesso non sono, a misura d’uomo, lo scultore inglese estende l’uomo sulla misura della città. Gormley costringe l’osservatore a misurare con la propria presenza le relazioni spaziali tra il corpo e l’ambiente. La trasfigurazione dell’uomo in modello urbano è un modo di ripensare dall’interno il concetto di abitabilità e le forme di organizzazione sociale. La costruzione architettonica del corpo segnala una continuità tra l’intervento urbanistico e le dinamiche dell’esistenza individuale. Nella città utopica l’uomo è unità di misura, ma non sempre individuo. La modellizzazione antropomorfa contribuisce a un discioglimento dell’individuo nel corpo sociale. La programmazione razionalistica dello spazio urbano si fonda su un livellamento egualitario che vuole prevenire gli scarti e le affermazioni singole. L’irriducibile dell’individuo è assorbito all’interno di un’armonia preordinata. L’anomalia “curata” statisticamente come una forma patologica della città-organismo, o come un guasto nella città-macchina. 

Ricondurre la dimensione urbana all’uomo non come misura ideale, ma come individuo, riabilita l’irriducibile, fonda la progettazione sulla scarto. L’anomalia stessa è il progetto. Lo studio della molteplicità dei casi singoli è una assunzione della complessità. L’uomo urbano di Gormley avverte che non si può fare tabula rasa, non si può progettare in astratto, come se lo spazio fosse un foglio bianco. I segni intervengono sempre su tessuti stratificati, incidono corpi che resistono. Nel tempo presente affiorano i tempi lunghi della memoria. Le pratiche, i movimenti, i flussi contemporanei si innestano su gesti conosciuti da sempre, i materiali del nuovo rivestono e attraversano ossature antiche. Gormley non disegna una mappa aerea, perfettamente congegnata dall’alto. I punti dello spazio, gli individui, le insorgenze, gli ostacoli si incontrano procedendo, uno dopo l’altro, improvvisamente, e si superano uno dopo l’altro, con soluzioni sempre diverse, con applicazioni momentanee e irripetibili dell’intelligenza.

lunedì 18 giugno 2012

La piazza digitale


di Andrea Granelli

Questo articolo è stato pubblicato su Nòva domenica 17 giugno.


Le città sono oramai il luogo delle opportunità e dei problemi della contemporaneità. Con l’emergere dell’economia dei servizi non sono piú solo il luogo del consumo e dell’(auto)governo ma anche della produzione della ricchezza. Ma le città italiane sono diverse...

L’aspetto che forse piú le caratterizza è il loro cuore antico, il centro storico e il patrimonio culturale diffuso: è una straordinaria occasione per una forte caratterizzazione identitaria e può (anzi deve) diventare il laboratorio a cielo aperto dove sperimentare le tecnologie e le soluzioni piú avanzate. Ma vi sono altri aspetti specifici delle nostre città: l’essere organizzate attorno alle piazze, la forte dimensione turistica, la diffusione della cultura imprenditoriale artigiana e del commercio al dettaglio, una visione tutta nostra del welfare, una cultura dell’alimentazione che è anche in rapporto con la città che deve “appagare”.

Ora, le smart cities sono una grande occasione anche per l’Italia. Il tema va però affrontato nel modo giusto. Non una pallida imitazione dei modelli americani che partono da una visione distopica del vivere urbano e danno alle tecnologie digitali un potere quasi magico. Neanche una semplice risposta ai bandi europei per racimolare le sempre piú esigue risorse finanziarie pubbliche a disposizione per l’innovazione. Ma piuttosto l’occasione per riflettere a fondo sul futuro delle città, riunendo attorno a tavoli progettuali i principali attori per cogliere a pieno le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie ma in armonia con la storia, le tradizioni e le vocazioni delle nostre città, diverse rispetto alle megalopoli che spuntano come funghi da Oriente a Occidente. Non solo efficienza energetica, dunque, né riduzione dell’inquinamento, controllo della sicurezza o mobilità sostenibile, ma anche valorizzazione dei centri storici, nuove soluzioni di welfare, filiere corte alimentari. Non sarà l’intelligenza delle macchine o l’automazione dei processi che – da sola – salverà le nostre città, ma l’antica sapienza che ha consentito a eroi “mediterranei” come Ulisse di risolvere – grazie alla combinazione della techné con idee ingegnose, senza però mai perdere l’umanità e il senso del limite – problemi quasi al di fuori della portata dell’uomo.

L’importanza del tema smart cities nasce dalla rinata centralità del territorio. Questa visione (ri)mette infatti al centro dell’agenda economica, politica, sociale e culturale la valorizzazione del territorio, assumendolo nella sua multidimensionalità e forzando dunque un nuovo processo di pianificazione delle risorse che ne massimizzi il ritorno. È quindi un problema di scelta e prioritizzazione delle “classi di utenti” su cui focalizzare le principali risorse e di co-progettazione.
Il punto di partenza è comunque immaginarsi come dovrà (e potrà) essere la città italiana e come potrà diventare piú “ingegnosa”: questo approccio potrebbe diventare la risposta italiana al modello delle smart city di matrice americana, dove connettività Ict “dovunque e a prescindere dall’uso”, automazione spinta, potere maieutico degli open data e smartness delle macchine costituiscono gli aspetti fondativi. Poiché nasce da esigenze concrete, potrebbe anche contribuire in maniera efficace a dare indicazioni a livello europeo per evitare che i progetti di rigenerazione urbana si declinino in uno spazio stretto fra il recupero architettonico-funzionale delle aree degradate e il controllo delle emissioni nocive a causa del cattivo uso dell’energia.
Inoltre questo modello potrebbe essere una sorta di guida a cui gli sforzi progettuali urbani dovrebbero tendere: dove innovazione e tradizione, attività culturali ed economiche, imprenditoria for-profit e iniziative sociali convivono; dove l’esigenza di una mobilità urbana efficiente e sostenibile si integra in maniera naturale con grandi aree pedonali, dove il controllo dell’inquinamento e la chiusura al traffico dei centri ripropone la città a misura d’uomo; dove l’agorà e i “centri commerciali naturali” tornano a essere il centro naturale della città.

Oltretutto troppo spesso la città analizzata per costruire il processo di innovazione urbana è solo la “città che consuma” e la “città da amministrare”. Ma esiste una terza dimensione, quella della “città che produce”. Con l’emergere dell’economia dei servizi – che vale quasi il 70% del Pil – e una nuova stagione della cultura artigiana, la città sta diventando il cuore della nuova economia e richiede nuove infrastrutture e nuove piattaforme di conoscenza. È in questo ambito che il ruolo della Camera di Commercio diventa essenziale e deve affiancare il sindaco. È infatti sempre piú necessario un modo diverso di pensare il futuro dello spazio urbano, per ricostruire i tessuti economici, sociali e culturali delle città.

mercoledì 13 giugno 2012

La cultura del progetto


La giornata di studi su La Fabbrica al tempo di Adriano Olivetti, promossa a Torino dalla Fondazione Bottari Lattes in collaborazione con la Fondazione Olivetti, è una buona occasione per rivedere il video dell’intervento di Andrea Granelli al covegno sui cento anni della Olivetti, organizzato a Milano nel 2008.

Andrea Granelli è nato nello stesso anno in cui Olivetti è morto. E attraverso la sua esperienza prova a prolungare nel presente le linee di forza del pensiero e del lavoro di Adriano Olivetti. Non si tratta, afferma Granelli, di individuare le anticipazioni e le prefigurazioni olivettiane dell’attualità, quanto di recuperare pratiche introdotte da Olivetti e spesso disinnescate dallo sbiadire di una autentica cultura dell’impresa.


Olivetti ha saputo pensare all’urbanistica nell’ottica della riqualificazione. La riattivazione dell’antico, la necessità di un dialogo con il contesto storico, diventa un’opportunità per i progettisti e per i tecnici di sperimentare soluzioni e tecnologie. Secondo una declinazione concreta della responsabilità sociale dell’impresa, che deve tornare prioritaria in un momento in cui le esigenze della sostenibilità richiedono la capacità di progettare a “cubatura zero”.

Olivetti ha concepito la comunicazione come un momento decisivo del processo di innovazione, interpretato sempre come la produzione di una discontinuità. Non è possibile innovare senza raccontare il mutamento. Olivetti ha assorbito all’interno dell’impresa risorse in grado di allestire una narrazione, di costruire il mondo dell’utopia olivettiana. Scrittori, artisti, architetti, grafici che hanno fatto dell’estetica una funzione strutturale, superando la concezione ornamentale. Il design olivettiano non riguarda soltanto la forma del prodotto: estende l’elemento estetico alla cultura della progettazione, integra nella funzione l’esigenza espressiva. Come ricorda Sottsass, Olivetti chiede ai progettisti la ricerca di forme simboliche, non descrittive. Nel design si incontrano, e trovano forme di conciliazione del loro conflitto permanente, l’aspetto ingegneristico e quello comunicativo dell’impresa. La forma semplifica senza banalizzare, ovvero comunica senza minacciare la funzionalità. 


Olivetti ha intuito la necessità di progettare esperienze, anziché prodotti. Ha capito l’importanza delle interfacce, e della loro tendenza a diventare ergonomiche, intercettando le esigenze degli utenti e contribuendo a individuarli, offrendo a ognuno il segmento di “utilizzabilità” di cui ha bisogno.
Ha capito che proprio attraverso il suo potere individualizzante la tecnologia avrebbe travolto le istituzioni sociali, e la politica stessa. Indicando però anche il luogo e gli strumenti dai quali cominciare la ricostruzione della comunità.

martedì 12 giugno 2012

Il problema dell’uomo




“Quando la fabbrica è ferma i problemi della tecnica, le macchine, spariscono. Il problema fondamentale dell’uomo diventa piú chiaro. E quello è il problema che mi prende quando sono nella fabbrica chiusa, nella fabbrica ferma.”
Adriano Olivetti sostava spesso nei suoi stabilimenti vuoti a meditare sull’unico elemento del lavoro non scientificamente programmabile: l’uomo. Come si legge nell’intervista rilasciata per la Rai a Emilio Garroni nel 1960, della quale oggi “la Repubblica” ripropone un estratto. “Per molti anni questo problema di conciliare l’uomo e la macchina, cosí, mi ha affaticato. Mi sono persuaso che non esiste una ricetta, non esiste un ordine assoluto. Dovremmo cosí cercare di capire la questione fondamentale che è quella del rapporto dell’uomo con la fabbrica, dentro la fabbrica e fuori dalla fabbrica.”

La Fondazione Bottari Lattes, in collaborazione con la Fondazione Olivetti, ha organizzato per il 13 giugno al Teatro Vittoria di Torino il convegno La Fabbrica al tempo di Adriano Olivetti. Un’occasione per ragionare sulla crisi che attraversa la cultura del lavoro. In un momento in cui i sistemi economici si stanno profondamente ristrutturando, l’inquietudine umanistica di Olivetti torna a porre domande essenziali sui principi di organizzazione del lavoro e della produzione. Domande che saranno riformulate attraverso un programma di interventi singoli e una tavola rotonda, cui parteciperanno tra gli altri il sindaco di Torino Piero Fassino, lo scrittore e saggista Giuseppe Lupo, il sociologo Luciano Gallino, Laura Olivetti, gli storici Piero Bevilacqua, Valerio Castronovo e Miguel Gotor, il giornalista Furio Colombo. I lavori saranno coordinati da Paolo Mauri, che ha ideato l’evento insieme a Caterina Bottari Lattes, e da Bruno Quaranta.

“Dedicare una giornata ad Adriano Olivetti e alla sua fabbrica – si legge nella presentazione dell’iniziativa – significa innanzitutto ribadire che un progetto originale e articolato come il suo è ancora perfettamente attuale, soprattutto se si riflette sulla portata di quel progetto, teso a incidere sul territorio, sui servizi, sull’urbanistica, sulla cultura in generale e sulla tutela materiale e psicologica degli individui coinvolti. Il convegno vuole sottolineare il valore umanistico dell’iniziativa e promuovere la difesa di un patrimonio inalienabile, raggiunto a prezzo di lotte ormai secolari e oggi da molte parti minacciato: la dignità del lavoro.”

Proprio intorno all’attualità del pensiero di Adriano Olivetti dialogano Andrea Granelli e Giulio Sapelli in un post scriptum al libro Artigiani del digitale. Come creare valore con le nuove tecnologie.
La matrice culturale dell’imprenditoria olivettiana è artigianale in quanto muove da uno studio dell’uomo, delle sue esigenze, delle sue possibilità di espressione. Dice Sapelli: “Adriano Olivetti era ossessionato dall’uomo in quanto persona, dalla sua forza – spesso inespressa –, dai suoi bisogni. Le sue letture sul personalismo, il suo pensiero fortemente religioso, il suo interesse per la psicologia e la psicoanalisi, avevano messo l’uomo al centro dei suoi pensieri e della sua agenda di imprenditore – e poi di politico. La tecnologia doveva essere un modo per liberare l’uomo.”

La macchina da scrivere, l’oggetto che condensa il significato del progetto imprenditoriale di Olivetti, è percepita come un prodotto artigianale, quasi una sequenza di pezzi unici: “una macchina che si vende una per una a tante persone diverse”, si legge nell’intervista del 1960. La “Civiltà delle macchine” immaginata da Olivetti, e prefigurata attraverso la rivista diretta dall’ingegnere-poeta Leonardo Sinisgalli, si declinava nel segno di una sensibilità artigiana per i dettagli e per la qualità. “Io non amo le macchine come Oggetti”, diceva Sinisgalli, “le amo come Congegni”.

All’alba dell’industrializzazione gli operai specializzati costruivano i propri strumenti, che permettevano di individualizzare l’organizzazione del lavoro. L’irrompere della produzione di massa ha imposto strumenti e procedimenti standardizzati, che hanno aumentato la fatica e l’alienazione, introducendo un conflitto tra il tempo dell’uomo e il tempo della macchina.
I modi di produzione del digitale rendono molto frequente che i programmatori si costruiscano i propri utensili, programmi e applicazioni che personalizzano le procedure e ritagliano il lavoro sulle esigenze individuali. L’artigianato digitale sembra quasi un’imprevista possibilità di realizzazione del sogno visionario di Olivetti: macchine che, anziché soggiogare l’uomo, si adattano ai suoi bisogni.
Olivetti aveva visto la componente irrazionale del lavoro, resa evidente dalla fatica spesso inutile. Razionalizzare il lavoro significava ridurre la fatica superflua e umanizzare il contributo degli individui al prodotto finale. Il taylorismo di Olivetti non era uno strumento del padrone per rendere efficiente la produzione, ma un aiuto agli operai per ridurre la loro fatica e migliorare la qualità del tempo lavorativo.

L’uomo cui pensava Olivetti nel silenzio della fabbrica vuota era principalmente l’operaio, perché era nel lavoro in fabbrica il vero rischio dell’alienazione tecnologica. Col tramonto dei modelli economici fordisti e tayloristi è l’utilizzatore che rischia di essere manipolato, alienato, trasformato dalle tecnologie – soprattutto quelle digitali – ogni giorno piú potenti e pervasive. Il problema dell’uomo, allora, va pensato oggi da un punto di vista complementare rispetto a quello che impegnava Olivetti. Olivetti temeva che l’impiego massiccio della tecnologia in fabbrica potesse isolare, distruggere la coesione sociale. Ma oggi la comunità, uno dei concetti fondamentali del pensiero olivettiano, è aggredita dal versante del consumo, piú che da quello della produzione. E i rischi impliciti nell’intuizione di Olivetti si dispiegano con potente evidenza. Eppure i sintomi di disgregazione delle istituzioni sociali tradizionali vanno affrontati senza dimenticare un altro fondamentale insegnamento olivettiano: la tecnica può generare contemporaneamente i mali e gli antidoti, i problemi e le soluzioni. Esistono, e vanno individuate e valorizzate, potenzialità di ricomposizione della comunità e di riposizionamento dell’uomo implicite nelle reti sociali e nei sistemi di organizzazione e di relazione che le strutturano.

giovedì 7 giugno 2012

Nuvolaverde



Nuvolaverde è un network nato con lo scopo di immaginare il futuro e di condividere esperienze e scenari per alimentare la cultura digitale in funzione della sostenibilità. Si offre come raccordo fra il pubblico e il privato per integrare l’innovazione all’interno di un sistema economico “pulito”. Nato il 16 febbraio 2012 su impulso del Ministro Corrado Clini, Nuvolaverde si è strutturato da subito per organizzare Incontri Bilaterali tra il Ministro dell’Ambiente e le aziende della sostenibilità su temi come energia, mobilità, edilizia, tecnologie verdi.

Il 25 giugno è in programma all’Auditorium del Sole 24 Ore il Nuvolaverde Day. Una giornata dedicata all’approfondimento dei contesti del digitale italiano, durante la quale si alterneranno sul palco tecnici, scienziati, uomini di impresa, ricercatori, artisti del teatro 2.0, eroi del videogioco, padri della robotica e intellettuali che stanno lavorando a progetti digitali per la sostenibilità. L’evento è presentato da Enzo Argante, presidente di Nuvolaverde, e da Roberto Cingolani, direttore 
dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e advisor scientifico di Nuvolaverde; è prevista, inoltre, la partecipazione di iCub, robot italiano tra i piú evoluti al mondo, in grado di vedere e di sentire, di percepire il proprio corpo e il proprio movimento. Nel corso della giornata sarà consegnato il premio Aretè Digital Innovation al prodotto o al servizio che ha maggiormente contribuito allo sviluppo sostenibile.

Durante il Nuvolaverde Day avverrà il lancio del primo rapporto sulla Vita Digitale, una ricerca progettata ed elaborata attraverso il contributo di conoscenza delle aziende. L’Audutorium del Sole 24 Ore si prepara ad accogliere anche gli Italiani for Italy, un workshop dedicato a imprese pubbliche e private “con la testa digitale e il cuore verde”. Imprenditori, manager e ricercatori in grado di influenzare decisioni di multinazionali e governi, di incidere sensibilmente sugli scenari, sugli stili di vita futuri, sui mercati possibili, si incontreranno per condividere le esperienze piú avanzate e metterle a disposizione delle esigenze italiane.

Elemento fondante della strategia di Nuvolaverde è l’attività di informazione. Oltre alla partnership con il Gruppo 24 Ore e Il Sole 24 Ore Cultura è stata pianificata una relazione stabile con Atlante Green, portale per le imprese sostenibili progettato dalla Venice International University.
Comunicazione plurimediale e integrata, che dovrebbe avere come  esito la creazione di NuvolaverdeTv.

Il network si pone l’obiettivo di rafforzare il valore e il significato dei marchi virtuosi, per incentivarne la diffusione. La certificazione di Nuvolaverde individuerà le aziende, pubbliche e private, i prodotti e i servizi piú qualificati all’interno della filiera del digitale per la sostenibilità.

martedì 5 giugno 2012

Progetto Paese


A febbraio di quest’anno l’Anci ha presentato una serie organica di proposte per il Paese. Andrea Granelli ne ha parlato in un suo articolo su Wired. Il documento programmatico muove da una valutazione netta delle misure messe in atto a livello nazionale per rispondere agli effetti della crisi economica: i tagli lineari alla spesa pubblica, che colpiscono soprattutto gli enti locali, indeboliscono i sistemi di protezione dei cittadini, paralizzano l’economia e sottraggono prospettive alla crescita.

Se non vengono abbandonate senza sostegni a una deriva di lotte localizzate per la sorpavvivenza le città possono rappresentare il nucleo dal quale ripartire per elaborare le strategie di ripresa dello sviluppo. La città è il primo luogo di coagulazione di una comunità. Dentro la città possono riattivarsi rapidamente i processi produttivi anche attraverso la sperimentazione immediata di soluzioni innovative. Amministratori, imprenditori, associazioni di cittadini trovano nel tessuto urbano uno spazio naturale di convergenza e di collaborazione. E rappresentano energie da organizzare e coordinare dentro un disegno nazionale che non ignori le specificità e non indebolisca le autonomie. Un patto che riesca a unire le forze piú sane e attive e a tracciare un programma comune, per liberare risorse e favorire investimenti fondamentali per recuperare competitività e garantire equità. “Le città – si legge nel documento dell’Anci – possono mettere a disposizione molte proposte se si ha il coraggio di investire in un’innovazione dal basso capace di coinvolgere, in una grande sfida collettiva, le intelligenze e le competenze diffuse nei territori.”

Il patto proposto dall’Anci si articola in cinque Progetti Paese. Da una prospettiva sensibile alla progettazione di “città intelligenti” si può dire che il primo punto, riferito alle città ad alto potenziale di innovazione, si impone come prioritario e in grado di includere, come corollari, tutti gli altri.
Il piano per l’innovazione prevede una serie di interventi sistemici finalizzati a ridurre il ritardo italiano dal punto di vista delle infrastrutture tecnologiche. A partire da un programma di cablatura del territorio che possa estendere e rendere capillare il “sistema nervoso” delle connessioni di rete, portando la fibra ottica in tutte le imprese e in tutte le case. Attraverso una valorizzazione e una messa in opera delle competenze e delle conoscenze localizzate sul territorio, un coinvolgimento delle reti produttive e imprenditoriali locali, una attivazione degli strumenti amministrativi e fiscali di prossimità.

Naturalmente le infrastrutture tecnologiche rappresentano una condizione preliminare perché le imprese possano investire in innovazione: un prerequisito importante, ma non sufficiente. Non possono essere strade nel deserto: devono fertilizzare il paesaggio attraverso i servizi che riescono a veicolare. Insieme alle infrastrutture è necessario stimolare e promuovere la nascita di nuove imprese o di nuovi business nei settori dell’economia della conoscenza ad alto contenuto tecnologico. Superando la frammentazione e l’atomizzazione attraverso la costruzione di un programma nazionale, riconosciuto e riconoscibile, capace di ottimizzare gli sforzi e attrarre i migliori talenti in un cono di luce visibile, affermandosi anche sul piano simbolico e comunicativo. Si tratta di coagulare gli sforzi già in atto e integrare in un quadro unitario i tratti dispersi. Favorire lo sviluppo di imprese e business nel settore della new economy, coinvolgendo le principali industrie del Paese in declinazioni operative e scelte settoriali differenti nelle diverse città, al fine di valorizzare le competenze distintive dei singoli territori. Il fermento diffuso di nuove infrastrutture e nuovi servizi, organizzato in un Progetto Paese, potrebbe incanalare le energie e prepararle a sfruttare opportunità importanti, come quella di Expo 2015, che rischiano di sfumare e perdersi nelle ambiguità di una gestione opaca.

Un patto di questo tipo può essere governato efficacemente solo gestendo una collaborazione complessa tra il livello nazionale e i livelli locali, tra il centro e la periferia. La programmazione centrale deve essere intelligentemente declinata in un piano di azioni dislocate, capaci di articolare i progetti rispetto alle specifiche caratteristiche del territorio e alle esigenze delle città.
Al livello locale competono le azioni concrete di attuazione, mentre il livello nazionale avrà il compito di supportare le città, di coordinare i lavori, monitorare e valorizzare le esperienze, coinvolgere gli amministratori e i soggetti del territorio, garantire una comunicazione nazionale, assicurare le utilità di crescita, scambio e confronto per le comunità di innovatori che si verranno a costituire.
Un raccordo tra autonomia territoriale e visibilità del coordinamento nazionale è la chiave fondamentale per assicurare i fattori critici di successo del patto: “la concretezza locale degli interventi; il coinvolgimento attivo di una grande quantità di innovatori che sul territorio nazionale si muoveranno nella prospettiva di un disegno comune di crescita del Paese; la visibilità di un programma nazionale, che seppure realizzato tramite numerose esperienze locali consente di percepire una strategia unitaria e concreta per la crescita e la coesione dell’Italia”.

Nel contesto di una crisi profonda del rapporto tra i cittadini e le istituzioni, che si inquadra in una crisi della rappresentanza politica e che è diretta emanazione del collasso delle politiche, delle identità e delle economie nazionali e sovranazionali, ridefinire la sovranità, dare spazio alle emergenze dal basso, ridistribuire sul territorio risorse e responsabilità può rappresentare un argine decisivo contro una disgregazione che appare irreversibile se affrontata con gli strumenti tradizionali.


lunedì 4 giugno 2012

Le città mediali

Le infrastrutture che rendono possibili le relazioni non stanno nella città: sono la città. Esiste un’architettura dei sistemi di comunicazione che modella lo spazio urbano e descrive le sue condizioni di esistenza. Determinando le pratiche sociali, le forme di cittadinanza e le declinazioni dell’estetica.

Intorno all’urgenza di questi temi si svilupperà, dal 7 al 9 giugno, il seminario internazionale Media City: new spaces, new aesthetics, promosso dalla Triennale di Milano. Esperti di comunicazione, media, architettura e urbanistica si incontrano per provare a individuare le linee di trasformazione della città contemporanea e del futuro. Saranno ospiti “guru” internazionali come Henry Jenkins, architetti affermati come Kurt W. Forster, Mirko Zardini, Pierluigi Nicolin, giovani architetti di Yale, studiosi di media e contesti urbani come Vinzenz Hediger e Will Staw (responsabile del maggior laboratorio canadese su media e città), tecnologi come Alfonso Fuggetta, studiosi dell’organizzazione urbana come Giuliano Noci, studiosi di estetica come Mauro Carbone.

Il convegno è coordinato per la Triennale da Francesco Casetti, professore di cinema e media alla Yale University. Che in questo video si chiede: “cosa fanno i media alla città?” La rendono piú funzionale, piú attrattiva, piú sociale, piú bella, piú ampia, piú fluida. Ma anche piú complessa e difficile da decifrare.



“Come una Matrioska, i sotterranei del vivere collettivo sono l’esplorazione del presente”, scrive Luca Tremolada su Nòva introducendo la sua conversazione col professor Casetti. I media hanno sempre ridefinito l’ecologia dei sistemi umani, cosí come l’orizzonte delle abitudini individuali. Ma se i media novecenteschi plasmavano soprattutto lo spazio del pubblico o, come nel caso della televisione, risucchiavano nel pubblico lo spazio privato, i media digitali aboliscono ogni distinzione tra pubblico e privato. Aggredendo la nozione di centro i nuovi sistemi di comunicazione riconfigurano anche gli spazi urbani e le loro funzioni.

Le comunità che si creano in rete tendono a geolocalizzarsi secondo strategie inedite. Ma non per questo aboliscono il senso del territorio. Invece di escludersi a vicenda geografia virtuale e geografia fisica si compenetrano. L’interazione virtuale si prolunga nello spazio reale. Sifdando i progettisti a concepire luoghi capaci di rendere funzionale questa contaminazione di piani. “Un aspetto interessante – osserva Casetti – è che mentre la circolazione dei messaggi è globale, il loro impatto è locale.” Un tweet può permettere a una comunità di convocarsi in diretta in un punto del mondo, proprio mentre comunica al resto del mondo la realtà dell’incontro.
Come un nuova atmosfera “aumentata” la mediasfera fascia la città premendo sulle sue forme. Producendo estetiche e politiche. E ristrutturando il flusso economico, che sempre di piú integra la produzione di beni immateriali e valorizza la creatività.

La ricomposizione mediale della città disegna un articolato paesaggio di opportunità. Ma nasconde anche nelle proprie pieghe rischi ancora indefiniti e nuove categorie di problemi. Quali possono essere l’esasperazione delle tecniche di controllo, il livellamento delle differenze, le forme di esclusione legate ai ritardi tecnologici di alcune fasce della popolazione. Ritornando all’immagine della Matrioska: “le città rischiano di custodire sottomondi”, scollature tra i diversi livelli di fruizione, attività sotterranee che possono produrre smottamenti e pesanti ricadute nel reale. La sola possibile intelligenza della città sarà allora nella capacità di gestire attraverso soluzioni ingegnose la stratificazione complessa di opportunità e problemi.  

venerdì 1 giugno 2012

L’astuzia delle soluzioni


In un articolo pubblicato su Memo Grandi magazzini culturali (da qui si può scaricare il pdf con il testo integrale), Adrea Granelli invita a diffidare della traduzione letterale del concetto di smart city. All’intelligenza automatica implicita nella definizione Granelli dice di preferire la combinazione di “ingegno” e “astuzia”. Spiegando cosí la sfumatura interrogativa del titolo del suo libro, Città intelligenti?

Non è desiderabile l’avvento di città intelligenti se nel concetto di intelligenza prevale l’estremismo tecnologico che sogna la programmazione automatica di tutte le declinazioni del vivere. Una visione integralmente strumentale della razionalità introduce una inquietante, e irrealistica, tentazione “totalizzante” nel controllo dei processi sociali.

Il pensiero greco, spiega Granelli, distingueva il logos (intelligenza razionale legata all’uso della parola e alla capacità di concettualizzare) dalla metis (astuzia, acutezza animale). La prima era una “razionalità discorsiva”, lineare, mentre la seconda era una ”acutezza”, una intuizione di grande impatto, incisiva, spesso legata a un uso astuto delle poche risorse disponibili, sempre insufficienti se valutate da una prospettiva “razionale”. La metis è l’intelligenza di Ulisse, la sostanza del suo “multiforme ingegno”.

Prometeo (pro–metis) è colui che pensa in anticipo, che pre-vede. Oggi uno dei temi fondamentali della pianificazione urbana è proprio la previsione, l’anticipazione dei bisogni. L’astuzia – la dote attribuita tradizionalmente alla lince – fu l’idea che ispirò nel 1602 Federico Cesi quando fondò l’Accademia dei Lincei, la piú antica accademia del mondo, che ha annoverato tra i suoi primi soci Galileo Galilei.

L’agudeza, del resto, era uno degli aspetti centrali a cui puntava la formazione che le scuole gesuitiche organizzavano per la classe dirigente del tempo. Questa acutezza richiede un modo diverso di guardare le cose, di dare peso a ciò che si osserva, di dissezionare il noto con un occhio acuto come un rasoio.

Ma è l’incontro di acutezza e ingegno – descritto emblematicamente nel libro Agudeza y arte de ingenio che il gesuita Baltasar Gracián Y Morales scrisse nel 1647 – a generare potenza creativa, acutezza nella lettura del contesto e quella genialità che si traduce in opere di ingegno concrete, da cui l’espressione “genio civile”.

Le nuove tecnologie devono quindi aiutare le città non solo a diventare intelligenti e raziocinanti, a dare il meglio con le regole e le conoscenze attuali, ma anche – e forse soprattutto – a facilitare il processo di adattamento alle sempre piú mutevoli esigenze, e in qualche modo a intuirle e pre-vederle, trasformando gli spazi urbani in “città d’ingegno” dove visione, genialità (ma anche genius loci) e astuzia si fondono in unicum che consente di trovare – anche con la carenza cronica di risorse e competenze – soluzioni intelligenti in quanto “ingegnose”.