mercoledì 31 ottobre 2012

Significa Mordere Attraverso Ragionamenti Terrificanti



di Matteo Pelliti 

Con questo testo Matteo Pelliti inaugura il suo Dizionario  controfattuale dell’innovazione. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, anche su Il Bureau. A partire dalla parola piú smart del momento: smart, appunto.

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925

Damien Hirst, Zinc Sulfate, 2008

Smart
Molto tempo fa c’erano solo gli smarties, confettini colorati al cioccolato, a portare nel linguaggio comune la radice brillante dell’aggettivo inglese “smart”. Degli anni Quaranta è l’uso di smart cookies, per definire un tipo furbacchione o opportunista. Per avere delle smart bombs si dovettero aspettare gli anni Settanta. Le “città intelligenti” erano ancora tutte di là da venire, con buona pace di Leon Battista Alberti e della sua città ideale. La Daimler aspettò gli anni Novanta per produrre una vetturetta, SMART, che era in realtà acronimo di Swatch-Mercedes Art, veicolo a due posti che assorbí a lungo, quasi un’antonomasia, buona parte del significato di “Smart” nel linguaggio comune del parlante medio (intendo nell’italiano corrente: “ho la Smart”), al pari, forse, solo delle “smart-card”, che si diffusero con la pay-tv degli anni Zero per vedere le partite di calcio non piú “in chiaro”. Monosillabica e di facile pronuncia, quindi intrinsecamente smart in ogni sua parte, facile a essere acrosticizzata (Significa Mordere Attraverso Ragionamenti Terrificanti) la parola “smart” si porta dentro il “mordere” latino e il terribile e cacofonico “smerdaléos” greco. Si noti che all’incontrario restituisce “trams”, tale che il palindromo “Smart Trams” indica un chiaro percorso verso la mobilità urbana a basso impatto ambientale. Infine fu il tempo dei telefoni, cosí che da prefissoide divenne aggettivo sostantivato, o viceversa, e ogni smartphone una pròtesi del pensare. Oggi “smart” ammanta come uno smalto quasi ogni riflessione possibile sulle nuove modalità di sviluppo delle città – e non solo – col rischio, cosí, di far sbiadire il suo potenziale luminescente in una notte dove tutte le vacche, magrissime, sono grigie e in cui ogni sostantivo può essere santificato, cioè “smartizzato”, a piacimento: S. economy, S. governance, S. living, S. people, S. environment, S. mobility...

venerdì 19 ottobre 2012

La città con le donne

di Andrea Granelli

Questo testo è stato pubblicato sul numero 16 del Corriere delle comunicazioni, uscito il 15 ottobre 2012.


Tutte le riflessioni sulle smart cities sono concentrate sulle tecnologie e sul loro potere magico, capace di risolvere tutti i problemi. Questo approccio affrettato medita poco sulla specificità e priorità dei problemi da risolvere (e delle opportunità da cogliere), a loro volta identificati proprio in base al loro “essere affrontabili con le nuove tecnologie”. L’imperante tensione semplificante tende peraltro a ignorare le complessità dell’ecosistema urbano: la città è una realtà plurima e composita, non leggibile con le banali segmentazioni che suddividono la sua popolazione in studenti, cittadini attivi, lavoratori, pensionati, turisti e immigrati. Prendiamo ad esempio la terza età, vero e proprio universo in forte crescita numerica, che necessita di sotto-segmentazioni ulteriori per essere compreso e affrontato con efficacia: vita attiva/passiva, specifici interessi, isolamento o collegamento a un nucleo familiare fisicamente prossimo, propensione o timore per le nuove tecnologie, sono alcune delle variabili significative necessarie a spiegarne i comportamenti.

La vera assente dalle attuali segmentazioni è forse proprio la donna: non si tratta, ovviamente, di definire una sorta di “quote rosa urbane”, ma di coinvolgere una fondamentale componente dell’ecosistema urbano – preziosa per la sua capacità di accoglienza e generatività – in riflessioni e percorsi per costruire il futuro delle nostre città. Perennemente esposte ai lati deteriori di uno sviluppo urbano privo della partecipazione dei cittadini, ne affrontano errori progettuali e derive negative con astuzia, ingegno e senso del dovere, spesso “nascondendone” gli aspetti peggiori alla controparte maschile, per ridurre tensione e stress. Le donne sono ben consapevoli delle problematiche urbane, e possiedono punti di vista, idee e soluzioni cui prestare attenzione. È dunque necessario costruire la futura città “con le donne”, superando l’incomunicabilità e la ghettizzazione descritta da Federico Fellini nel film La città delle donne (1980), per arrivare alla (futura) “città per le donne”: un esempio interessante e controverso è Hofuf, citta per sole donne in via di costruzione in Arabia Saudita, tentativo di  armonizzare l’aspirazione a una carriera lavorativa con la divisione dei sessi imposta dalla stretta osservanza della sharia.

Quello che serve è un coinvolgimento maggiore e sistematico delle donne nell’ideazione e nella progettazione delle Smart Cities. La loro lontananza dal tema non è distrazione, ma consuetudine: la tecnologia, l’innovazione, la ricerca scientifica sono considerate il piú delle volte “roba da uomini” (nonostante la storia della scienza sia costellata da insigni scienziate). Basta vedere il gender di chi partecipa ai convegni sulle Smart Cities per averne conferma. La sensibilità  e l’energia creativa che le donne potrebbero mettere a disposizione di questo tema è tuttavia grandissima. Ne sono un esempio le riflessioni nate dalla terza edizione del progetto Osservatorio Cera di Cupra, promosso dalla Farmaceutici Dottor Ciccarelli, sul tema “città delle donne”. L’iniziativa, mirata ad ascoltare e dare voce alle donne di oggi sul loro ruolo nella società e su tematiche vicine all’universo femminile, ne ha esplorato il rapporto con il vivere urbano, per comprendere quanto le nostre città siano effettivamente “a misura di donna”, anche in riferimento ai molteplici ruoli gestiti nel quotidiano. I risultati sono chiari: la voce femminile che ne esce è “l’ottimismo nonostante tutto”. Secondo Simona Scalone, studentessa all’Università degli Studi di Bari, vincitrice di una delle borse di studio messe in palio dall’Osservatorio: “La città delle donne sarebbe […] una città che, come le donne, sa accogliere i suoi cittadini, perché chi meglio di una donna può farlo?! Lei che per natura accoglie per prima il seme della vita nel suo grembo […] saprebbe prendersi cura di ognuno. Dalla culla alla tomba. Una presenza che genera senso di sicurezza, che ti permette di esplorare al di fuori di essa, una base sicura”. Ma c’è di piú: solo una sensibilità tipicamente femminile può essere capace di scoprire, e valorizzare adeguatamente, gli antichi saperi artigiani che rischiano di scomparire, ma che sono diffusamente presenti nella Capitale. Roma&Roma è il tentativo di riscattare la città dall’anonimato e dal caos, nato dall’intento di tre donne romane di “svelare”, condividendoli sul web, alcuni tra gli aspetti piú intimi e meno stereotipati – e per questo piú caratteristici – della Città Eterna.

Social innovation e resilienza del welfare


di Andrea Galante

Questo testo è stato scritto per Il Bureau.

© Gabriel Orozco, Astroturf Constellation, 2012
La crisi del welfare, spesso raccontata solo in chiave economica, risiede nella difficoltà di dare una risposta utile e concreta a sfide vecchie e nuove: povertà ed esclusione, educazione e formazione di giovani e lavoratori, cambiamento climatico e risparmio energetico. Da una parte una sua concezione inefficace, burocratica e spersonalizzante, dall’altra trasformazioni sociali profonde rendono necessario un ripensamento delle forme del welfare. A questo proposito ultimamente ha preso forza la nozione di social innovation. Sino a qualche anno fa non esisteva neanche una pagina wikipedia a riguardo. Ora è  invece diventata una delle parole chiave dell’agenda europea Horizon 2020 e anche del nostro governo tecnico che ha lanciato una Social Innovation Agenda per l’Italia.

La domanda viene spontanea. Cosa è esattamente la social innovation?  La giustapposizione di due parole d’ordine (e spesso abusate) come social e innovation ha un potere evocativo alto, ma non altrettanta precisione concettuale. Proviamo a fare un po’ di ordine.
Il libro bianco sull’innovazione sociale degli studiosi Murray, Grice a Mulgan definisce l’innovazione sociale come un processo che si caratterizza sia per i suoi risultati che per le relazioni cooperative che crea. L’Unione europea, attraverso il rapporto del BEPA, sottolinea un punto fondamentale: molti problemi attuali necessitano un ripensamento degli stili di vita oltre che di novità tecnologiche e organizzative. In questo senso, la social innovation costituisce un’innovazione sociale sia nei mezzi che nei fini. Nuovi prodotti e nuovi servizi che rispondono a problematiche diffuse e che, contemporaneamente, iniettano valore nella società e aumentano la capacità stessa dei gruppi di rispondere a situazioni di crisi.
Anche se non sempre presente, la componente tecnologica è un ingrediente decisivo: la società in rete ha prodotto nuove forme organizzative e associative, ha dato supporto a una necessità di cooperazione e di condivisione tra gli individui e ha creato un terreno che sfugge alle classiche divisioni tra pubblico e privato. Cosí, l’innovazione spesso risiede nella capacità degli individui di legarsi in reti e gestire problemi complessi e, assieme di dar spazio a forme di intelligenza collettiva.

Ma di cosa si sta parlando in concreto? Le forme della social innovation possono essere varie: imprenditoria sociale, associazionismo, profit e no-profit, settore pubblico e privato. Per esempio, Amsterdam UrbanMap è uno spazio web che informa sulle emissioni CO2 della città e fornisce ai sui abitanti consigli riguardo i metodi migliori di riduzione. The participatory budgeting è una piattaforma attraverso la quale i cittadini di Colonia sono invitati a partecipare circa le decisioni di allocazione di risorse pubbliche. E ancora, i Complaints Choirs danno la possibilità a tante persone in tutto il mondo di riunirsi e – letteralmente – cantare i problemi della loro vita quotidiana.
Le forme attraverso le quali si può innovare il sociale sono varie e curiose, anche se non è detto che siano tutte efficaci. Ciò che ci preme sottolineare è che è il legame sociale, la relazione tra soggetti diversi a occupare la centralità della scena. Come afferma Alex Giordano, sociologo attento a questi fenomeni, “l’etica del networking sta uscendo dalla rete e incominciando a colonizzare nuove forme di organizzazione del lavoro. Ciò è interessante perché risponde a regole non piú aritmetiche: non siamo piú in una dimensione dove uno piú uno fa due, ma in una dimensione dove uno piú uno può fare tre, prendendo pezzi disagiati di società e mettendoli insieme si possono creare delle opportunità”.
Ecco allora la resilienza del nuovo welfare. L’approccio della social innovation parte dalla crisi dei servizi sociali e del rapporto tra istituzioni e bisogni della società, usa l’intelligenza collettiva e crea opportunità, aumenta la partecipazione dei cittadini. Non risolverà tutti i problemi e da solo non basterà, quello è certo. Ma è il suo carattere che ci piace.

giovedì 11 ottobre 2012

Apprendere e creare nell’era della Rete

di Andrea Granelli

Aby Warburg, Mnemosyne
Questo testo è un estratto dal saggio Scritture brevi e nuove tecnologie digitali: un nuovo percorso verso l’apprendimento e la creatività, che Andrea Granelli ha pubblicato all’interno del volume collettivo Scritture brevi di oggi, a cura di Francesca Chiusaroli e Fabio Massimo Zanzotto, edito in open access dall’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”.







 




I confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo.
Ludwig Wittgenstein

L’immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi.
Elias Canetti
 

La crescita in varietà e complessità di tecnologie e sistemi, la maggiore profondità di conoscenza del consumatore richiesta per progettare prodotti e servizi, la diffusa instabilità dei modelli organizzativi prevalenti e delle regole per avere successo e soprattutto la crescente imprevedibilità dei fenomeni e dei comportamenti collettivi fa sí che il saper apprendere e tenersi al passo con i tempi è diventato oggi un imperativo categorico. Il successo di un manager dipende sempre di piú non tanto da quello che sa già, quanto dall’intensità, dalla rapidità e dall’efficacia con cui riesce a imparare: deve essere quindi in grado di giocare un ruolo attivo nel costruire e gestire lo sviluppo dei propri saperi.
Nonostante ciò la stragrande maggioranza delle persone non sa piú imparare. Per questo motivo la Declaration on learning promulgata nel 1988 dal Learning Declaration Group ha sancito a chiare lettere che la capacità di “imparare a imparare” e di padroneggiare il processo di apprendimento è la conoscenza critica del prossimo secolo.

Dobbiamo trasformarci da immagazzinatori di fatti in protagonisti di indagini e di discussioni e cioè passare dalla conoscenza-racconto alla conoscenza-problema. Per questi motivi il metodo (e il “contenitore” dove si deposita e si organizza la conoscenza appresa) è quasi piú importante del contenuto. Il processo di apprendimento (e il relativo processo di raccolta della conoscenza) deve essere pertanto costruito in funzione di come noi assorbiamo e riutilizziamo la conoscenza e non solo puntando a una facilitazione della produzione dei contenuti. Dobbiamo ridurre l’attenzione quasi esclusiva verso la tecnologia e il suo (spesso solo apparente) potere taumaturgico e lavorare maggiormente sulle metodologie di apprendimento e sui processi reali di assorbimento e riutilizzo del sapere che ci viene proposto.
La vera missione di chi vuole facilitare l’apprendimento è quindi “invitare al significato”, per usare una felice espressione di George Steiner.
In un’era caratterizzata dalle immagini, va però recuperato il rapporto con la parola scritta, unendo la forma alfabetica al potere delle immagini con l’obiettivo di creare una nuova sintesi compositiva che unisca – oltretutto – intelletto ed emozioni.

La potenza del linguaggio è spesso dimenticata. Come affermava Gorgia il sofista, “la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmare la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà.” Inoltre scrivere ha un ruolo fondamentale nell’apprendere. Osserva infatti Lothar Baier, autorevole scrittore e critico letterario tedesco, che “la scrittura non può procedere al ritmo del pensiero e quindi non può rifletterne il corso, ha una velocità sua propria. Il rallentamento che ne deriva non si limita a frenare il pensiero, ma anzi lo modifica e lo arricchisce, concedendogli il tempo di assorbire, durante il percorso, obiezioni e argomentazioni contrarie.”

Servono nuovi schemi e nuovi format per supportare l’autentico apprendimento, il cui scopo non è tanto archiviare ma consentire di recuperare in maniera creativa quanto immagazzinato. Recuperare con accostamenti coraggiosi suggerimenti inaspettati, creare dei varchi nella nostra memoria poiché – come notava Ungaretti – l’idea creativa (come la parola poetica) “scaturisce dall’abisso”. Per questo va utilizzato anche il potere delle emozioni, che richiede strumenti narrativi diversi e spesso vede l’immagine come forma di rappresentazione naturale. Come ha osservato Salvatore Natoli in Edipo e Giobbe, “il dolore – al pari di tutte le esperienze estreme (come anche la felicità) – lacera il linguaggio, si colloca sempre al di sotto o al di sopra di esso” e il processo creativo – quando è radicale – è un’esperienza estrema.
La sfida è organizzare il non conosciuto e suggerire nuove correlazioni: “dimmi come cerchi e ti dirò cosa cerchi” scrisse Wittgenstein nelle sue Osservazioni filosofiche, ribadendo l’importanza degli strumenti di ricerca (e mettendoci implicitamente in guardia anche sul loro potere condizionante).

Le immagini spesso innescano il processo creativo. Einstein affermava che la maggior parte delle sue idee nascevano con laiuto di immagini mentali, ancora prima che attraverso un qualche tipo di teorizzazione verbale o matematica. Anche Italo Calvino ne era convinto: “Quando ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi teorici; l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine d’ogni mio racconto c’era un’immagine visuale […] Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé.”
Si possono a questo punto ipotizzare tre possibili direzioni verso cui dovrebbe orientarsi l’apprendimento mediato (e facilitato) dagli strumenti digitali.

Archiviare (classificando) le informazioni in maniera efficiente e facilmente ritrovabile/riutilizzabile.
Per il grande regista Konstantin Stanislavskij nel teatro le parole del testo si traducono creativamente in immagini interiori che hanno la doppia funzione di far ricordare il testo e di tradurlo in immagini corporee vive ed efficaci; una vera e propria fisiognomica teatrale, dove le caratteristiche fisiche e le qualità morali e psicologiche si traducono immediatamente le une nelle altre. Il poter – grazie alle tecnologie digitali di nuova generazione – archiviare immagini, ricercarle in funzione di particolari o colori oppure usare schemi di archiviazione che si basano sul potere delle immagini (si pensi ai cosiddetti “luoghi della memoria”) è oggi non solo possibile ma è una grande occasione.
Un caso molto interessante di classificazione della conoscenza è quello concepito da Aby Warburg, il grande mecenate fondatore della omonima scuola, per aiutare nella creazione di intuizioni e di “comprensioni interdisciplinari”: la cosiddetta Biblioteca per le scienze della cultura. Tale biblioteca era organizzata secondo il criterio personale della “legge del buon vicinato”, che non disponeva i libri in sequenze alfabetiche o cronologiche, ma li accostava – “come tessere di un mosaico di cui aveva ben chiaro in mente il disegno” – in base agli ambiti culturali e tematici, ai significati intrinseci, e ne modificava continuamente l’ordine con la crescita della collezione e lo sviluppo delle ricerche. L’obiettivo di questa biblioteca era strumentale a una specifica convinzione che Warburg nutriva relativamente al ruolo della memoria. Straordinario – anticipatore dei temi di cui stiamo discutendo e naturalmente collegato alla sua idea di biblioteca – fu anche il suo “atlante della memoria” (Mnemosyne: serie di immagini per l’analisi della funzione svolta dai valori espressivi stabiliti dall’antichità nella rappresentazione della vita in movimento nell’arte europea del Rinascimento), un’opera “aperta”, composta da circa sessanta tavole a loro volta composte da collage di circa millecinquecento tra foto e immagini. Warburg usava queste tavole per illustrare le proprie conferenze. Osservano Kurt W. Forster e Katia Mazzucco in Introduzione ad Aby Warburg e all’atlante della memoria, che “il meccanismo di smontaggio e di riassemblaggio dei materiali presenti nelle tavole di Mnemosyne, consente di staccare e ritagliare, letteralmente, i soggetti della ricerca dal contesto originale non per snaturarli o, peggio, banalizzarli e fraintendere la loro qualità ed essenza ma per valorizzarli in termini nuovi.”

Facilitare la condivisione del non codificato e del non strutturato per potenziare il processo creativo.
Il processo creativo ha bisogno di instabilità, di differenze di potenziale, si nutre di (bio)diversità, di suggestioni, di tracce; per questo motivo le immagini, i frammenti di conoscenza, il “non ancora codificato” sono essenziali nell’innescare i processi di ricordo e di creatività. La possibilità – grazie alle nuove tecnologie digitali – di codificare non solo numeri, testi, strutture definite, ma anche immagini, ambienti immersivi, frammenti vocali, e schemi, connessioni, ipertesti, apre spazi straordinari al processo di apprendimento. La sfida è di far convivere i due “mondi” – la struttura e il disordine, l’emozione e la regola – facilitando le occasioni di sintesi che aprono la via all’intuizione e alla creatività e soprattutto consentendo una condivisione diffusa con altri per allargare il processo creativo. La Rete è un grande strumento di condivisione, ma non basta creare i social network. Bisogna creare meccanismi per la condivisione non solo dei saperi ma anche delle emozioni per facilitare la generazione di stimoli creativi. Le emozioni portano all’azione, mentre la ragione porta solo a trarre delle conclusioni. Come dice Manfred Kets de Vries dell’Insead: “un grammo di emozione può essere piú efficace che una tonnellata di fatti”.

Costruire ambienti effettivamente centrati sull’apprendimento e non sul semplice scambio di contenuti culturali o sedicenti educativi.
In questo contesto i “siti personali” – spazi web associati a singoli individui e pensati per essere contenitori di conoscenza ed elementi di racconto della propria identità – saranno un elemento chiave. Essi sono un pezzo di noi stessi sulla rete; sono un vero e proprio “sé digitale”, elemento centrale nella nuova topologia della mente originatasi dall’interazione dell’uomo con le tecnologie digitali. La possibilità di archiviare toglie quella dimensione transitoria tipica delle prime forme di comunicazione elettronica e consente di memorizzare, riutilizzare, e riadattare l’informazione aprendo nuovi spazi espressivi.
Ma deve esistere un luogo personale di archiviazione, strumento conoscitivo, che consente di realizzare una vera e propria memoria estesa, a complemento e integrazione della memoria fisiologica. L’esistenza di questo luogo personale sta progressivamente forzando nuovi comportamenti. L’accessibilità diffusa al nostro DNA digitale trasforma il concetto di identità: da monade inaccessibile a spazio esposto e attraversabile.

mercoledì 10 ottobre 2012

Apri la scatola (open the box)


…e troverai foreste urbane intelligenti e imprese, cittadini e amministrazione pubblica innovati per un progresso sostenibile.

Joseph Beuys, Capri-batterie, 1985
Italia 2020, Università La Sapienza di Roma, Stati generali
dell’innovazione e Istituto Luigi Sturzo promuovono per il 31 ottobre a Roma il forum Apri la scatola (open the box), che si terrà a partire dalle 9 e 30 negli spazi della Camera di Commercio, presso il Tempio di Adriano.





Siamo immersi – si legge nella presentazione dell’iniziativa – in una rivoluzione che sta portando a un cambio di paradigma nelle relazioni tra persone, imprese, amministrazione pubblica e territori: i nuovi strumenti digitali entrano in ogni aspetto della vita creando nuove opportunità ma nel contempo crescenti complessità. In questo contesto la governance pubblica deve necessariamente orientarsi a nuove forme di pianificazione e governo che uniscano competenze e strumentazioni adeguate e innovative e nel contempo consentano una autentica partecipazione attiva di cittadini, mondo scientifico e imprese. Ciò è ancor piú vero in relazione a due temi “caldi”:

lo sviluppo e l’innovazione del sistema delle imprese, che in Italia è caratterizzato da un’altissima percentuale di micro e piccole imprese e ha ancora notevoli margini di crescita e competitività se sostenuto nell’integrazione fisica e culturale alla “rete” e da una forte spinta verso un’innovazione integrata;
la pianificazione e gestione delle foreste urbane (città, paesi, campagne, paesaggi) in ottica smart, occasione per riflettere a fondo sul futuro, riunendo attorno a tavoli progettuali i principali attori per cogliere a pieno le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, in armonia con la storia, le tradizioni e le vocazioni dei nostri territori.

In un quadro dove l’agenda digitale è una priorità del governo nazionale, e cogliendo l’occasione della recente uscita di due libri che trattano – da prospettive diverse – questi temi (L’innovazione integrata. Imprese e amministrazione pubblica: nuovi paradigmi digitali per un progresso sostenibile di Claudio Cipollini e Christian Rinaldi e Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities di Andrea Granelli), si approfondirà la riflessione con l’obiettivo di individuare e proporre nuove linee di intervento per una via al digitale che consenta una integrazione sostenibile fra cittadini, imprese e amministrazione pubblica nelle foreste urbane.

Il programma, che prevede un’introduzione di Claudio Cipollini, Andrea Granelli e Christian Rinaldi, si articola su due sessioni: la prima dedicata alle foreste urbane intelligenti, seguita da una rassegna di casi di successo applicativo, e una seconda dedicata all’innovazione integrata di imprese, cittadini e amministrazione pubblica. La giornata sarà moderata dalla blogger Flavia Trupia.

martedì 2 ottobre 2012

L’utopia necessaria

di Valentina Parasecolo

Questo articolo è stato pubblicato martedí 25 settembre per “Il Messaggero” online.
 
Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1951
Di “smart city” si parla nei bandi europei, nelle agende politiche nazionali, alle riunioni delle pubbliche amministrazioni. Eppure un rapporto realizzato da The European House Ambrosetti spiega che il 78% degli italiani non ne ha mai sentito parlare. Un altro 14 per cento non ne ricorda il significato. Cosa sono dunque le smart cities? E perché sono importanti per il futuro dell’Italia e dell’Europa?
Una città intelligente (smart, appunto) persegue l’efficienza energetica, ha buoni servizi di e-government e comunicazione digitale, è dotata di sistemi di trasporto pubblico e privato innovativi. È un modello di sviluppo urbano che si struttura intorno a criteri tecnologici ed ecologici. Per favorirne la crescita l’Unione europea ha previsto un investimento tra i 10 e i 12 miliardi di euro da qui al 2020. La scelta dei progetti piú meritevoli riguarderà tre direttrici principali: le reti elettriche, i trasporti e l’efficienza energetica nell’edilizia. Oltre all’Europa, anche il governo italiano si sta impegnando nello sviluppo delle città del futuro: le smart city potrebbero rientrare nell’atteso decreto Digitalia, mentre il ministro Profumo ha annunciato bandi per un miliardo di euro.

Ma le città intelligenti non sono solo sostenibili, tecnologiche, interconnesse. Andrea Granelli, consulente nel campo dell’innovazione e autore del libro Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities, spiega: “La tecnologia deve essere concepita al servizio di una visione, non come puro fine. Chi è chiamato a ripensare la città deve individuare la vocazione di quel territorio, soprattutto in Italia e in Europa dove l’identità si fonda su secoli di storia e cultura.” Una città dunque che riformula innanzitutto il proprio scopo e la propria economia intorno al sapere di chi la abita e alle caratteristiche del luogo.

Essere “smart” non significa solo fare come Firenze, in cui è possibile acquistare il biglietto dell’autobus attraverso un sms. Secondo Granelli è intelligente un esempio come quello di Perugia, inserita nel ranking di European Smart Cities (un progetto che coinvolge le Università di Vienna, Delft e Lubiana): “Il capoluogo umbro ha investito molto in mobilità, costruendo scale mobili e un innovativo sistema di trasporto automatico su rotaia. Sono scelte coraggiose, astute, che vogliono dare slancio alla vocazione turistica del centro.

Insomma, l’intelligenza delle città non è meramente “artificiale”, ma sostanzialmente umana in quanto dipenderebbe da scelte politiche intorno alla predisposizione di un luogo. Lo studio Ambrosetti spiega che se le metropoli intelligenti fossero realtà potrebbero generare fino a 160 miliardi di euro annui sotto forma di recuperi di efficienza in settori come la mobilità, l’edilizia e l’energia. Rendere possibile la loro realizzazione significherebbe dunque risparmiare. Ma anche rilanciare i punti di forza di un territorio, dai centri storici alla forza creativa di chi lo abita.