Aby Warburg, Mnemosyne |
I confini
del mio linguaggio sono i confini del mio mondo.
Ludwig Wittgenstein
L’immagine
ha bisogno della nostra esperienza per destarsi.
Elias CanettiLa crescita in varietà e complessità di tecnologie e sistemi, la maggiore profondità di conoscenza del consumatore richiesta per progettare prodotti e servizi, la diffusa instabilità dei modelli organizzativi prevalenti e delle regole per avere successo e soprattutto la crescente imprevedibilità dei fenomeni e dei comportamenti collettivi fa sí che il saper apprendere e tenersi al passo con i tempi è diventato oggi un imperativo categorico. Il successo di un manager dipende sempre di piú non tanto da quello che sa già, quanto dall’intensità, dalla rapidità e dall’efficacia con cui riesce a imparare: deve essere quindi in grado di giocare un ruolo attivo nel costruire e gestire lo sviluppo dei propri saperi.
Nonostante ciò la
stragrande maggioranza delle persone non sa piú imparare. Per questo motivo la Declaration on learning promulgata nel 1988 dal Learning Declaration Group ha sancito a
chiare lettere che la capacità di “imparare a imparare” e di padroneggiare il
processo di apprendimento è la conoscenza critica del prossimo secolo.
Dobbiamo trasformarci da
immagazzinatori di fatti in protagonisti di indagini e di discussioni e cioè
passare dalla conoscenza-racconto alla conoscenza-problema. Per questi motivi
il metodo (e il “contenitore” dove si deposita e si organizza la conoscenza
appresa) è quasi piú importante del contenuto. Il processo di apprendimento (e il relativo processo di
raccolta della conoscenza) deve essere pertanto costruito in funzione
di come noi assorbiamo e riutilizziamo la conoscenza e
non solo puntando a una facilitazione
della produzione dei contenuti. Dobbiamo ridurre l’attenzione
quasi esclusiva verso la tecnologia e il suo (spesso
solo apparente) potere taumaturgico
e lavorare maggiormente sulle metodologie di apprendimento
e sui processi reali di assorbimento e riutilizzo del sapere
che ci viene proposto.
La vera missione di chi
vuole facilitare l’apprendimento
è quindi “invitare al significato”, per usare una felice
espressione di George Steiner.
In un’era caratterizzata
dalle immagini, va però recuperato il rapporto
con la parola scritta, unendo la forma alfabetica al
potere delle immagini con
l’obiettivo di creare una nuova
sintesi compositiva che unisca –
oltretutto – intelletto ed emozioni.
La potenza del linguaggio
è spesso dimenticata. Come affermava Gorgia
il sofista, “la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo
corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere;
riesce infatti e a calmare
la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la
pietà.” Inoltre scrivere ha un ruolo fondamentale nell’apprendere. Osserva
infatti Lothar Baier, autorevole scrittore e critico letterario tedesco, che
“la scrittura non può procedere al ritmo del pensiero e quindi non può rifletterne
il corso, ha una velocità sua propria. Il rallentamento che ne deriva non si
limita a frenare il pensiero, ma anzi lo modifica e lo arricchisce,
concedendogli il tempo di assorbire, durante il percorso, obiezioni e
argomentazioni contrarie.”
Servono nuovi schemi e
nuovi format per supportare l’autentico apprendimento, il cui scopo non è tanto
archiviare ma consentire di recuperare in maniera creativa quanto
immagazzinato. Recuperare con accostamenti coraggiosi suggerimenti inaspettati,
creare dei varchi nella nostra memoria poiché – come notava Ungaretti – l’idea
creativa (come la parola poetica) “scaturisce dall’abisso”. Per questo va
utilizzato anche il potere delle emozioni, che richiede strumenti narrativi
diversi e spesso vede l’immagine come forma di rappresentazione naturale. Come
ha osservato Salvatore Natoli in Edipo e Giobbe, “il dolore – al
pari di tutte le esperienze estreme (come anche la felicità) – lacera il
linguaggio, si colloca sempre al di sotto o al di sopra di esso” e il processo
creativo – quando è radicale – è un’esperienza estrema.
La sfida è organizzare il
non conosciuto e suggerire nuove correlazioni: “dimmi come cerchi e ti dirò
cosa cerchi” scrisse Wittgenstein nelle sue Osservazioni filosofiche,
ribadendo l’importanza degli strumenti di ricerca (e mettendoci implicitamente
in guardia anche sul loro potere condizionante).
Le immagini spesso
innescano il processo creativo. Einstein affermava che la maggior parte delle
sue idee nascevano con l’aiuto
di immagini mentali, ancora prima che attraverso un qualche tipo di
teorizzazione verbale o matematica. Anche Italo Calvino ne era convinto: “Quando
ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi
teorici; l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine d’ogni mio racconto
c’era un’immagine visuale […] Appena l’immagine è diventata abbastanza netta
nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le
immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che
esse portano dentro di sé.”
Si possono a questo punto
ipotizzare tre possibili direzioni verso cui dovrebbe orientarsi
l’apprendimento mediato (e facilitato) dagli strumenti digitali.
Archiviare
(classificando) le informazioni in maniera efficiente e facilmente
ritrovabile/riutilizzabile.
Per il grande regista
Konstantin Stanislavskij nel teatro le parole del testo si traducono
creativamente in immagini interiori che hanno la doppia funzione di far
ricordare il testo e di tradurlo in immagini corporee vive ed efficaci; una
vera e propria fisiognomica teatrale, dove le caratteristiche fisiche e le
qualità morali e psicologiche si traducono immediatamente le une nelle altre.
Il poter – grazie alle tecnologie digitali di nuova generazione – archiviare
immagini, ricercarle in funzione di particolari o colori oppure usare schemi di
archiviazione che si basano sul potere delle immagini (si pensi ai cosiddetti
“luoghi della memoria”) è oggi non solo possibile ma è una grande occasione.
Un caso molto interessante
di classificazione della conoscenza è quello concepito da Aby Warburg, il grande mecenate fondatore della omonima scuola, per
aiutare nella creazione di intuizioni e di “comprensioni interdisciplinari”: la
cosiddetta Biblioteca per le scienze
della cultura. Tale biblioteca era organizzata secondo il criterio
personale della “legge del buon vicinato”, che non disponeva i libri in
sequenze alfabetiche o cronologiche, ma li accostava – “come tessere di un
mosaico di cui aveva ben chiaro in mente il disegno” – in base agli ambiti
culturali e tematici, ai significati intrinseci, e ne modificava continuamente
l’ordine con la crescita della collezione e lo sviluppo delle ricerche.
L’obiettivo di questa biblioteca era strumentale a una specifica convinzione
che Warburg nutriva relativamente al ruolo della memoria. Straordinario –
anticipatore dei temi di cui stiamo discutendo e naturalmente collegato alla
sua idea di biblioteca – fu anche il suo “atlante della memoria” (Mnemosyne:
serie di immagini per l’analisi della funzione svolta dai valori
espressivi stabiliti dall’antichità nella rappresentazione della vita in
movimento nell’arte europea del Rinascimento), un’opera “aperta”,
composta da circa sessanta tavole a loro volta composte da collage di circa
millecinquecento tra foto e immagini. Warburg usava queste tavole per
illustrare le proprie conferenze. Osservano Kurt W. Forster e Katia Mazzucco in
Introduzione ad Aby Warburg e all’atlante della memoria, che “il
meccanismo di smontaggio e di riassemblaggio dei materiali presenti nelle
tavole di Mnemosyne, consente di staccare e ritagliare, letteralmente, i
soggetti della ricerca dal contesto originale non per snaturarli o, peggio,
banalizzarli e fraintendere la loro qualità ed essenza ma per valorizzarli in
termini nuovi.”
Facilitare
la condivisione del non codificato e del non strutturato per
potenziare il processo creativo.
Il processo creativo ha
bisogno di instabilità, di differenze di potenziale, si nutre di (bio)diversità,
di suggestioni, di tracce; per questo motivo le immagini, i frammenti di
conoscenza, il “non ancora codificato” sono essenziali nell’innescare i processi
di ricordo e di creatività. La possibilità – grazie alle nuove tecnologie
digitali – di codificare non solo numeri, testi, strutture definite, ma anche
immagini, ambienti immersivi, frammenti vocali, e schemi, connessioni,
ipertesti, apre spazi straordinari al processo di apprendimento. La sfida è di
far convivere i due “mondi” – la struttura e il disordine, l’emozione e la
regola – facilitando le occasioni di sintesi che aprono la via all’intuizione e
alla creatività e soprattutto consentendo una condivisione diffusa con altri
per allargare il processo creativo. La Rete è un grande strumento di
condivisione, ma non basta creare i social network. Bisogna creare meccanismi
per la condivisione non solo dei saperi ma anche delle emozioni per facilitare
la generazione di stimoli creativi. Le emozioni portano all’azione, mentre la
ragione porta solo a trarre delle conclusioni. Come dice Manfred Kets de Vries
dell’Insead: “un grammo di emozione può essere piú efficace che una tonnellata
di fatti”.
Costruire
ambienti effettivamente centrati sull’apprendimento e non sul semplice scambio
di contenuti culturali o sedicenti educativi.
In questo contesto i “siti
personali” – spazi web associati a singoli individui e pensati per essere
contenitori di conoscenza ed elementi di racconto della propria identità – saranno
un elemento chiave. Essi sono un pezzo di noi stessi sulla rete; sono un vero e
proprio “sé digitale”, elemento
centrale nella nuova topologia della mente originatasi dall’interazione
dell’uomo con le tecnologie digitali. La possibilità di archiviare toglie
quella dimensione transitoria tipica delle prime forme di comunicazione
elettronica e consente di memorizzare, riutilizzare, e riadattare
l’informazione aprendo nuovi spazi espressivi.
Ma deve esistere un luogo
personale di archiviazione, strumento conoscitivo, che consente di realizzare
una vera e propria memoria estesa, a complemento e integrazione della memoria
fisiologica. L’esistenza di questo luogo personale sta progressivamente forzando
nuovi comportamenti. L’accessibilità diffusa al nostro DNA digitale trasforma il concetto di identità: da monade inaccessibile a spazio esposto e attraversabile.
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