giovedì 11 ottobre 2012

Apprendere e creare nell’era della Rete

di Andrea Granelli

Aby Warburg, Mnemosyne
Questo testo è un estratto dal saggio Scritture brevi e nuove tecnologie digitali: un nuovo percorso verso l’apprendimento e la creatività, che Andrea Granelli ha pubblicato all’interno del volume collettivo Scritture brevi di oggi, a cura di Francesca Chiusaroli e Fabio Massimo Zanzotto, edito in open access dall’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”.







 




I confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo.
Ludwig Wittgenstein

L’immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi.
Elias Canetti
 

La crescita in varietà e complessità di tecnologie e sistemi, la maggiore profondità di conoscenza del consumatore richiesta per progettare prodotti e servizi, la diffusa instabilità dei modelli organizzativi prevalenti e delle regole per avere successo e soprattutto la crescente imprevedibilità dei fenomeni e dei comportamenti collettivi fa sí che il saper apprendere e tenersi al passo con i tempi è diventato oggi un imperativo categorico. Il successo di un manager dipende sempre di piú non tanto da quello che sa già, quanto dall’intensità, dalla rapidità e dall’efficacia con cui riesce a imparare: deve essere quindi in grado di giocare un ruolo attivo nel costruire e gestire lo sviluppo dei propri saperi.
Nonostante ciò la stragrande maggioranza delle persone non sa piú imparare. Per questo motivo la Declaration on learning promulgata nel 1988 dal Learning Declaration Group ha sancito a chiare lettere che la capacità di “imparare a imparare” e di padroneggiare il processo di apprendimento è la conoscenza critica del prossimo secolo.

Dobbiamo trasformarci da immagazzinatori di fatti in protagonisti di indagini e di discussioni e cioè passare dalla conoscenza-racconto alla conoscenza-problema. Per questi motivi il metodo (e il “contenitore” dove si deposita e si organizza la conoscenza appresa) è quasi piú importante del contenuto. Il processo di apprendimento (e il relativo processo di raccolta della conoscenza) deve essere pertanto costruito in funzione di come noi assorbiamo e riutilizziamo la conoscenza e non solo puntando a una facilitazione della produzione dei contenuti. Dobbiamo ridurre l’attenzione quasi esclusiva verso la tecnologia e il suo (spesso solo apparente) potere taumaturgico e lavorare maggiormente sulle metodologie di apprendimento e sui processi reali di assorbimento e riutilizzo del sapere che ci viene proposto.
La vera missione di chi vuole facilitare l’apprendimento è quindi “invitare al significato”, per usare una felice espressione di George Steiner.
In un’era caratterizzata dalle immagini, va però recuperato il rapporto con la parola scritta, unendo la forma alfabetica al potere delle immagini con l’obiettivo di creare una nuova sintesi compositiva che unisca – oltretutto – intelletto ed emozioni.

La potenza del linguaggio è spesso dimenticata. Come affermava Gorgia il sofista, “la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmare la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà.” Inoltre scrivere ha un ruolo fondamentale nell’apprendere. Osserva infatti Lothar Baier, autorevole scrittore e critico letterario tedesco, che “la scrittura non può procedere al ritmo del pensiero e quindi non può rifletterne il corso, ha una velocità sua propria. Il rallentamento che ne deriva non si limita a frenare il pensiero, ma anzi lo modifica e lo arricchisce, concedendogli il tempo di assorbire, durante il percorso, obiezioni e argomentazioni contrarie.”

Servono nuovi schemi e nuovi format per supportare l’autentico apprendimento, il cui scopo non è tanto archiviare ma consentire di recuperare in maniera creativa quanto immagazzinato. Recuperare con accostamenti coraggiosi suggerimenti inaspettati, creare dei varchi nella nostra memoria poiché – come notava Ungaretti – l’idea creativa (come la parola poetica) “scaturisce dall’abisso”. Per questo va utilizzato anche il potere delle emozioni, che richiede strumenti narrativi diversi e spesso vede l’immagine come forma di rappresentazione naturale. Come ha osservato Salvatore Natoli in Edipo e Giobbe, “il dolore – al pari di tutte le esperienze estreme (come anche la felicità) – lacera il linguaggio, si colloca sempre al di sotto o al di sopra di esso” e il processo creativo – quando è radicale – è un’esperienza estrema.
La sfida è organizzare il non conosciuto e suggerire nuove correlazioni: “dimmi come cerchi e ti dirò cosa cerchi” scrisse Wittgenstein nelle sue Osservazioni filosofiche, ribadendo l’importanza degli strumenti di ricerca (e mettendoci implicitamente in guardia anche sul loro potere condizionante).

Le immagini spesso innescano il processo creativo. Einstein affermava che la maggior parte delle sue idee nascevano con laiuto di immagini mentali, ancora prima che attraverso un qualche tipo di teorizzazione verbale o matematica. Anche Italo Calvino ne era convinto: “Quando ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi teorici; l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine d’ogni mio racconto c’era un’immagine visuale […] Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé.”
Si possono a questo punto ipotizzare tre possibili direzioni verso cui dovrebbe orientarsi l’apprendimento mediato (e facilitato) dagli strumenti digitali.

Archiviare (classificando) le informazioni in maniera efficiente e facilmente ritrovabile/riutilizzabile.
Per il grande regista Konstantin Stanislavskij nel teatro le parole del testo si traducono creativamente in immagini interiori che hanno la doppia funzione di far ricordare il testo e di tradurlo in immagini corporee vive ed efficaci; una vera e propria fisiognomica teatrale, dove le caratteristiche fisiche e le qualità morali e psicologiche si traducono immediatamente le une nelle altre. Il poter – grazie alle tecnologie digitali di nuova generazione – archiviare immagini, ricercarle in funzione di particolari o colori oppure usare schemi di archiviazione che si basano sul potere delle immagini (si pensi ai cosiddetti “luoghi della memoria”) è oggi non solo possibile ma è una grande occasione.
Un caso molto interessante di classificazione della conoscenza è quello concepito da Aby Warburg, il grande mecenate fondatore della omonima scuola, per aiutare nella creazione di intuizioni e di “comprensioni interdisciplinari”: la cosiddetta Biblioteca per le scienze della cultura. Tale biblioteca era organizzata secondo il criterio personale della “legge del buon vicinato”, che non disponeva i libri in sequenze alfabetiche o cronologiche, ma li accostava – “come tessere di un mosaico di cui aveva ben chiaro in mente il disegno” – in base agli ambiti culturali e tematici, ai significati intrinseci, e ne modificava continuamente l’ordine con la crescita della collezione e lo sviluppo delle ricerche. L’obiettivo di questa biblioteca era strumentale a una specifica convinzione che Warburg nutriva relativamente al ruolo della memoria. Straordinario – anticipatore dei temi di cui stiamo discutendo e naturalmente collegato alla sua idea di biblioteca – fu anche il suo “atlante della memoria” (Mnemosyne: serie di immagini per l’analisi della funzione svolta dai valori espressivi stabiliti dall’antichità nella rappresentazione della vita in movimento nell’arte europea del Rinascimento), un’opera “aperta”, composta da circa sessanta tavole a loro volta composte da collage di circa millecinquecento tra foto e immagini. Warburg usava queste tavole per illustrare le proprie conferenze. Osservano Kurt W. Forster e Katia Mazzucco in Introduzione ad Aby Warburg e all’atlante della memoria, che “il meccanismo di smontaggio e di riassemblaggio dei materiali presenti nelle tavole di Mnemosyne, consente di staccare e ritagliare, letteralmente, i soggetti della ricerca dal contesto originale non per snaturarli o, peggio, banalizzarli e fraintendere la loro qualità ed essenza ma per valorizzarli in termini nuovi.”

Facilitare la condivisione del non codificato e del non strutturato per potenziare il processo creativo.
Il processo creativo ha bisogno di instabilità, di differenze di potenziale, si nutre di (bio)diversità, di suggestioni, di tracce; per questo motivo le immagini, i frammenti di conoscenza, il “non ancora codificato” sono essenziali nell’innescare i processi di ricordo e di creatività. La possibilità – grazie alle nuove tecnologie digitali – di codificare non solo numeri, testi, strutture definite, ma anche immagini, ambienti immersivi, frammenti vocali, e schemi, connessioni, ipertesti, apre spazi straordinari al processo di apprendimento. La sfida è di far convivere i due “mondi” – la struttura e il disordine, l’emozione e la regola – facilitando le occasioni di sintesi che aprono la via all’intuizione e alla creatività e soprattutto consentendo una condivisione diffusa con altri per allargare il processo creativo. La Rete è un grande strumento di condivisione, ma non basta creare i social network. Bisogna creare meccanismi per la condivisione non solo dei saperi ma anche delle emozioni per facilitare la generazione di stimoli creativi. Le emozioni portano all’azione, mentre la ragione porta solo a trarre delle conclusioni. Come dice Manfred Kets de Vries dell’Insead: “un grammo di emozione può essere piú efficace che una tonnellata di fatti”.

Costruire ambienti effettivamente centrati sull’apprendimento e non sul semplice scambio di contenuti culturali o sedicenti educativi.
In questo contesto i “siti personali” – spazi web associati a singoli individui e pensati per essere contenitori di conoscenza ed elementi di racconto della propria identità – saranno un elemento chiave. Essi sono un pezzo di noi stessi sulla rete; sono un vero e proprio “sé digitale”, elemento centrale nella nuova topologia della mente originatasi dall’interazione dell’uomo con le tecnologie digitali. La possibilità di archiviare toglie quella dimensione transitoria tipica delle prime forme di comunicazione elettronica e consente di memorizzare, riutilizzare, e riadattare l’informazione aprendo nuovi spazi espressivi.
Ma deve esistere un luogo personale di archiviazione, strumento conoscitivo, che consente di realizzare una vera e propria memoria estesa, a complemento e integrazione della memoria fisiologica. L’esistenza di questo luogo personale sta progressivamente forzando nuovi comportamenti. L’accessibilità diffusa al nostro DNA digitale trasforma il concetto di identità: da monade inaccessibile a spazio esposto e attraversabile.

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