mercoledì 27 marzo 2013

Innovare è conoscere


“Innovazione” è la ventunesima e, necessariamente, ultima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti, pubblicato in collaborazione con Il Bureau. Abbiamo fatto ventuno, come ventunesimo è il secolo che ci sta portando nel futuro a suon di spintoni. Alle rapide certezze delle “magnifiche sorti e progressive” abbiamo provato a opporre l’esitazione della pensosità: per tornare ad affermare, con uno slogan platonico, che innovare è conoscere.



Ciò che hai ereditato dai padri
Acquistalo per possederlo!
Ciò che non serve è un carico pesante;
Solo ciò che l'attimo crea, esso può utilizzare.
Goethe, Faust, I, 682-685

Esiste una differenza tra “innovare” e “innovazione”? Torniamo per qualche riga all’etimologia: in-novare, cioè “rendere nuovo”, rimanda alla novità del “nuovo” la cui radice è antichissima e largamente comune alle lingue indoeuropee per indicare tutto ciò che è giovane, recente, che è nato da poco, che non è vecchio ed è… nuovo, appunto, il νέος greco. La dialettica interna al termine, però, quella che mette a contatto in un divenire innovazione e arcaicità, si è persa nel momento in cui “innovazione” ha iniziato a legarsi, nel linguaggio comune, quasi esclusivamente all’idea di “tecnologia”, di téchne. Per qualche riga facciamo un passo ancora piú indietro, e precisamente al Cratilo di Platone, dialogo che investiga la correttezza dei nomi”, vale a dire la relazione tra un nome e il suo referente, mettendo in discussione se questa relazione sia di tipo naturale o convenzionale. Nella lunga galoppata “etimologica” del Cratilo, che è pure una specie di piccola enciclopedia della cultura greca del tempo (IV secolo a.c.) Socrate ci dice, tra le varie etimologie piú o meno fondate che va ricostruendo: Del resto, ancora, la stessa νόησις (= lo stesso pensiero) è τοū νέου έσις (= desiderio del nuovo), ed essere νέα (= nuovi) per gli enti vuol dire essere sempre γιγνόμενα (= in divenire): pertanto colui che assegnò il nome di νεóησις (neóesis), indica che l’anima tende a questo(Cratilo, 410 E – 412 A). “Innovazione” oggi, al contrario, si è sostanzializzata, reificata, e la parola non evoca piú la mobilità fluida del processo conoscitivo, del tendere a qualcosa che, dinamicamente, non c’è ancora quanto a qualcosa che è il risultato di un processo. Ogni processo conoscitivo è, di per sé, innovazione. Detto con uno slogan “platonico”: conoscere è innovare. Quel che si è depositato nel termine, invece, soprattutto negli usi attuali piú discorsivi, è qualcosa di ancora – per me – profondamente ottocentesco: l’innovazione è tale se risulta essere qualcosa di esportabile industrialmente, riproducibile in serie (le sedie di legno curvo di Thonet a metà Ottocento). L’illusione della “democraticizzazione dell’innovazione”, infine, si condensò in una celebre frase di Henry Ford, usata anche in tempi recenti come claim pubblicitario: “C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”. Ma a quale costo? E chi sono questi “tutti”?

mercoledì 20 marzo 2013

Ex post


“Post” è la ventesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.




Il linguaggio dei filosofi è un linguaggio già deformato come da scarpe troppo strette.
Ludwig Wittgenstein

La misura di un post, ad esempio di questa stessa voce di dizionario “controfattuale”, circa duemila caratteri spazi inclusi autoimposti, è figlia di una nuova dittatura del pensiero “breve”. In che modo le forme brevi di scrittura – chat, sms, blog, status fino al cosiddetto “micro-blogging” dei centoquaranta caratteri di Twitter – hanno modificato la costruzione della “dicibilità” nella formulazione scritta di un’idea? Quel che è avvenuto sembrerebbe simile a una liofilizzazione, il processo che toglie l’acqua da una sostanza organica senza che la sostanza subisca un deterioramento. Ma quanta e quale acqua dovrò aggiungere a un post prima che mi restituisca la – ipotetica – complessità del pensiero originario che voleva esprimere? Affidarsi a una breve parentesi etimologica sul passaggio dal sostantivo al verbo, in genere, non è d’aiuto: che “to post” per “affiggere un foglio a una trave (post, dal  ‘postis’ latino, lo stipite della porta) in un luogo pubblico” sia databile 1630 non ci risparmia, poi, dal dover citare pure il neologismo italiano “postare” per “Affiggere, impostare un messaggio in un blog o in un sito di discussione della rete telematica”, attestato dalla fine anni degli Novanta e imperante per tutta la prima decade degli anni Duemila. In realtà il post non abbrevia nessun percorso logico ma informa, ex post, la dicibilità stessa di un giudizio, di un’espressione, di un pensiero. Mi occorrono ancora seicento caratteri circa per andare a parare in un explicit di sapore ironico o pessimista, secondo la tesi, certamente non dimostrabile, per la quale i nuovi confini testuali attraverso i quali ci esprimiamo, sul web e non solo sul web, deformano e informano la nostra capacità di astrazione e creazione di pensieri, come le scarpe troppo strette del linguaggio dei filosofi. Non è un caso, allora, se proprio l’aforisma, il motto di spirito, il citazionismo, il rovesciamento ironico della battute che fioriscono nello stesso istante del presentarsi del fatto ironizzato, appaiono oggi cosí ricorrenti nella produzione testuale delle forme brevi incoraggiata da tutti i socialnet.
Mi scuso per la lunghezza di questo post, ma non ho avuto il tempo di scriverne uno piú breve.

venerdì 15 marzo 2013

Mitologie urbane. Il mito della partecipazione


Tommaso Matano

Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.



Assopiti nella convinzione che far parte della massa volesse dire garantirsi un’esistenza tranquilla, al riparo dalle responsabilità, ci risvegliamo, oggi, umiliati e oltraggiati, colpiti nella nostra indifferenza.
Convocati a esprimerci, a parlare, a decidere, a giudicare, a sapere, forzati ad attivarci, chiamati all’improvviso a parlare di tutto, tutti.
Nella formula magica che tiene insieme rivoluzione informatica e paradigma sociologico – il duepuntozero – ci ritroviamo improvvisamente a fare i conti con una nuova responsabilità.
Ciò che Pasolini ci aveva insegnato della televisione, cioè la sua prepotenza, il suo parlare sempre ex cathedra, mitigato – potremmo aggiungere – solo dall’illusione democratica del televoto, si sfalda lentamente di fronte all’incalzante rivoluzione dei nuovi media.
Resti pure un baluardo dei tempi antichi, di una reazionaria visione del mondo, se la tengano pure, loro, la televisione.
Il cambio di paradigma che il web 2.0 e i suoi profeti annunciano con toni millenaristici è già in atto da anni: tutto ciò che è stato verticale, deve diventare orizzontale.

Non serviranno piú i giornali e le redazioni perché ci saranno wikileaks e i blogger.
Non servirà piú l’editoria perché ci saranno i siti di self-publishing.
Non serviranno piú gli intellettuali perché chiunque potrà curare una rubrica su un sito internet pretendendo di fornire chiavi di lettura sulla realtà.
Non serviranno piú i partiti perché ci saranno i movimenti.
Non serviranno piú i solidi perché tutto sarà liquido.
Il nuovo linguaggio non accetterà concetti monolitici ma significati posti in una rete, nuvole semantiche.
Ognuno potrà coniare il suo hashtag, dettare il passo, riformulare la grammatica. 
La rapidità con cui ci troveremo catapultati di spalle in questo inevitabile progresso, sospinti nel domani con lo sguardo ancora fisso sulle macerie del passato, verso un quadro di Klee o un saggio di Benjamin, ancora schiavi di un modo ormai finito di pensare, sarà tale da trasformare tutto il nostro tempo. Perfino quello verbale. E allora ciò che affideremo alla distanza sicura di un futuro semplice sarà in realtà già presente.
Se qualcuno non si sentirà pronto, non si sentirà in grado di prender parte a questa scalpitante chiamata alle armi delle coscienze, se qualcuno si rifiuterà di adeguarsi alla spontaneità di questo processo, che ci chiede la partecipazione per darci in cambio l’illusione del superuomo, allora sapremo che quel qualcuno sarà semplicemente un nemico già sconfitto, un mostro contro natura, un morto che parla.

In questo tempo in cui il nostro essere si fa carico della sua responsabilità di stare nel mondo, tutto deve divenire oggetto di una nostra decisione.
Stanchi della libertà massificata nel nostro individualismo (che brutta parola, la massa, cosí orrendamente solida!) intravediamo ora l’esigenza di un passo ulteriore: rendere i concetti stessi di pubblico e privato scorrevoli, cangianti, vivi, resuscitarli dalla loro mummificazione.
Si può intanto trasformare la logica che guida le nostre scelte private nell’unità di misura delle scelte pubbliche.
Non esistono piú gli esperti, ci sono solo opinioni di pari autorevolezza. Uno vale uno. Nel mondo piatto e orizzontale in cui finalmente si decide della propria vita, io voglio e devo pronunciarmi:

“Ascoltate ciò che ho da dire, mio pubblico, le mie opinioni appena masticate e già sputate. Non è piú tempo di digestioni.
Sono finite quelle inutili strutture che facevano da filtro, che gravavano pesanti, impedendoci di liberare la nostra forza primordiale e democratica; ora possiamo, finalmente, rivendicare la nostra singolare importanza.
Eravamo schiacciati, nella massa, stretti come granelli da un peso invincibile!
Guardate adesso invece, come scorriamo, come partecipiamo della liquidità!
Tutti parliamo, tutti scriviamo, tutti produciamo informazioni!
È rimasto qualcuno, dall’altra parte, a leggere e ad ascoltare?
Esiste ancora, un’altra parte, in una realtà orizzontale?”

Una delle prime conseguenze che scaturisce dalla rivoluzione partecipativa dei nuovi mezzi di comunicazione consiste dunque nel trasformare il pubblico in una mera estensione quantitativa del privato. Lo fanno gli eventi di facebook che storicizzano i nostri vissuti personali rendendoli presuntamente intersoggettivi e lo fa la retorica delle casalinghe al potere (rovesciamento anti-intellettualistico della Repubblica di Platone – che incarna del resto il vecchio sistema di potere dei partiti e della metafisica –).
Ma c’è dell’altro: la partecipazione cessa di essere semplice condizione di possibilità della libertà e diviene lo strumento che dà diritto all’esercizio di un potere nuovo. Un potere che è piuttosto una volontà di potenza.
La partecipazione ci illude di avere a disposizione una qualche forma di onniscienza, di onnipotenza. Una forza in continua espansione, vorace e infinitamente estendibile, una forza coniata a immagine e somiglianza del web, che ne è lo sfuggevole sostrato ontologico.
Il gesto del prender parte diviene allora sufficiente a decidere le proprie sorti e dunque, per incauta sineddoche, le sorti dell’umanità intera.
All’operazione de-costruzionista, post-modernista, post-strutturalista che disossa la complessità superfetata del reale, la rivoluzione orizzontale aggiunge il valore positivo della partecipazione.
La tecnologia ci mette in condizione di rendere questa partecipazione semplicissima: basta esprimere la propria opinione, non servono altre competenze.

La fatica del confronto tra persone non va piú in scena negli spazi della città. Spietata nella sua velocità, la rivoluzione partecipativa ci illude di star distruggendo il mostro della società alienante servendoci delle sue stesse forme degenerate: gli slogan, i titoli cubitali, il bombardamento di informazioni, e una rete confusa di altre mitologie e mistificazioni che si inseguono come in un nastro di Möbius (l’esempio piú eclatante: confondere gli ordini di grandezza, offrire risposte in termini di milioni a problemi in termini di miliardi).

La rivoluzione partecipativa non si limita a opporre alla complessità del reale una visione semplicistica.
Fa di più: denuncia la complessità come illusione architettata ad arte per ingannarci, per celare il potenziale che il presente nasconde. Dice cioè che questo momento di difficile crisi è in realtà l’occasione per un riscatto che può avvenire con la massima facilità.
L’individuo della massa può finalmente affermarsi: non deve sgomitare per emergere, fare i conti con la realtà storica, con il contesto sociale. La tecnologia gli offre un campo da gioco piatto.
Gli chiede solo di muovercisi sopra, non importa come.
La portata etica di questo riassestamento valoriale è enorme.

Un esempio forte è il progetto The cure/La cura, in cui Salvatore Iaconesi invita il popolo della rete ad aiutarlo nell’affrontare la sua malattia, mettendo a disposizione i suoi dati clinici online, con l’intento di sviluppare una cura open source, creando un database di diagnosi, referti, terapie fruibili da tutti in tutto il mondo. Al di là della portata estetica dell’evento, che sembra nelle forme grafiche il lancio di un nuovo serial televisivo e che nasconde invece il vissuto personale di un cancro al cervello – e del resto le forme della nostra sensibilità dovranno abituarsi a questo tipo di riorganizzazione –, l’aspetto piú interessante è che nell’appello di The cure viene detto che chiunque può partecipare alla cura. È sufficiente inviare un pensiero, un disegno, una fotografia. Non solo i medici sono coinvolti, tutti possono avere una funzione terapeutica, contribuire a salvare il prossimo, ognuno con i propri strumenti, in un modo ridicolmente immediato, senza il minimo sforzo, nemmeno emotivo. In fondo per quanto ci si possa appassionare alla storia di Iaconesi, per noi semplici utenti della Rete resterà sempre uno sconosciuto.
Mai avremmo pensato che appagare il nostro bisogno di fare del bene potesse essere cosí semplice.
Iaconesi ci fa dono della sua malattia, del suo vissuto personale, trasformando il suo privato in pubblico.
Esser chiamati a partecipare di qualcosa di cosí intimo e complesso come una malattia, in un modo tanto semplice, spalanca di fronte al nostro potere un orizzonte impensabile.
Oggi chiunque di noi, attraverso il proprio computer, può aiutare a curare un cancro.

Se il risultato di questa ristrutturazione della nostra esperienza di individui nella società, sarà pulire i filtri effettivamente sporchi di quelle strutture che fanno da filtro, o se invece ci aspetterà un esito piú radicale, immaginabile solo per le parole profetiche che lo annunciano, si vedrà.

Senz’altro l’esigenza di prender parte alle cose, di esprimerci attraverso flash mob, di immergerci in questa realtà orizzontale, piena di occasioni, finalmente coinvolti in prima persona, qui dove tutto è a portata di mano – anche la scienza e la verità –, questa esigenza, questo diritto/dovere, cela il rischio di consegnarci alla superficialità.

Perché la partecipazione invita alla prossimità, ma il comprendere reclama la distanza.

mercoledì 13 marzo 2013

Il futuro è un’abitudine


“Augmented Reality” è la diciannovesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.



L’espressione “realtà aumentata” è presente da diversi anni nel dibattito dell’innovazione. Di tanto in tanto, però, all’affacciarsi d’una nuova app o di un nuovo dispositivo, la formula riappare come il ritrovato piú sintetico ed esemplificativo della modernità, cioè del “modus hodiernus”. Le frontiere che gli occhiali di Google, o l’iWatch della Apple, si apprestano ad aprire sono ancora difficilmente prevedibili circa le abitudini capaci di generare. Ma in “abitudine” sta appunto uno dei tratti tipici di questi nuovi dispositivi: l’indossabilità. La realtà è aumentata in quanto sempre filtrata da un’intercapedine che aumenta le percezioni, le informazioni che abbiamo sul reale. Il mito dell’immediatezza è, appunto, un mito. La “wearable tecnology”, l’indossabilità, avanza come il necessario espediente per far sí che l’intercapedine – e la sua percezione – sia il piú prossima possibile ai nostri abiti, alle “abitudini”. La dimensione di questi nuovi scafandri è minima, intercetta i sensi, avvolge la vista (l’uomo bionico occidentale ha sviluppato, proprio in quanto occidentale, un’ipertelìa dello sguardo). Non è un caso, allora, se si parla di “immersione” (e di “tecnologie immersive”) per identificare tutti i sistemi che integrano virtualità e sensorialità nella realtà aumentata. Quanto lontani sembrano i tempi della semplice “realtà virtuale”, degli omicidi su “Second life”, delle soluzioni grafiche dei primi film anni Novanta che davano forma visuale a questi temi (ad esempio The Lawnmower Man, 1992). I problemi di pressione, e di “decompressione”, che afflissero tutta la pratica subacquea tra Ottocento e primo Novecento, li ritroveremo nel nostro presente-futuro rapporto dialettico tra immersione/emersione nella e dalla realtà aumentata. Se vent’anni fa la realtà virtuale veniva trattata come una specie di “droga”, il confine tra droga e “deroga” dal reale ora non appare piú praticabile, e quello tra realtà e realtà aumentata è ormai una pura questionare di lana caprina digitale, lontani anni luce dall’estetica Cyberpunk già pienamente realizzatasi e mimetizzata. Per ogni occhiale di Google che si prepara a risplendere a breve negli store, per ogni iWatch che attende l’apposito lancio in un keynote, già è pronto l’affacciarsi di un movimento neo-neo-neoluddista che proclami il ritorno necessario a uno stato naturale di “realtà diminuita”. M’iscrivo.


mercoledì 6 marzo 2013

Bring Your Own Disaster


“Byod” è la diciottesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.








BYOD è un acronimo, uno tra i molti che intasano il lessico dell’innovazione; nati per contrarre senso, per guadagnare tempo (o spazio grafico in pagina) ne fanno perdere moltissimo, in realtà, all’atto di sciogliere i significati che l’acronimo custodisce. Bring your own device (BYOD), oppure bring your own technology (BYOT), o ancora bring your own phone (BYOP), e bring your own PC (BYOPC), indicano tutti il lavorare con un device, un dispositivo, di tua proprietà: ti porti da casa (e a casa) il tuo strumento di lavoro, computer, tablet o smartphone che sia. Nella vorticosa precarizzazione del mondo del lavoro, il passaggio finale è stato questo: lavori, sempre sottopagato e, tipicamente, in un lavoro “atipico” nel quale usi strumenti di tua proprietà, consumando strumenti tuoi. L’innovazione ha cancellato progressivamente, e in modo silenzioso, le distinzioni tra “luogo di lavoro” e ”strumenti di lavoro”: luogo e device coincidono. Dei molti acronimi aziendali storici (FIAT, FILA, BMW…) si è persa, nei piú, la memoria semantica, mentre gli acronimi dell’innovazione hanno preso a condensare comportamenti, prassi, al posto di oggetti o aggettivi come avveniva nelle sigle del passato. La sindrome NIMBY, Not In My Back Yard, o la sua estremizzazione BANANA (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything) sono acronimi “comportamentali”, simili in questo al BYOD. Lontanissimo appare il tempo in cui, genialmente, Marcello Marchesi coniava per i fumetti di Asterix la traduzione di SPQR – acronimo latino per Senatus PopulusQue Romanus – convertendolo nel famoso e ormai proverbiale “Sono Pazzi Questi Romani”. Allo stesso modo, il BYOD odierno ha già incontrato una ritraduzione ironica in Bring Your Own Disaster, per evocare i rischi, in termini di sicurezza dei dati, cui le aziende si espongono lasciando utilizzare ai propri dipendenti dispositivi nei quali vengono condivisi usi e informazioni private. Cosí come il “consumo di banda” che la connessione alle reti aziendali wireless dei molti dispositivi personali può comportare. Il rischio maggiore è, però, di altra natura: la scomparsa, in alcuni settori professionali, del confine tra una dimensione “privata” e una “lavorativa” dell’esistenza, dove il problema della conciliazione tra due tempi alternativi (vita/lavoro) scompare. È l’era di lavoratori già tecnologicamente formati ed esperti, che padroneggiano applicazioni, dispositivi e programmi piú complessi, o analoghi, rispetto a quelli che troveranno sul posto di lavoro. È la “consumerizzazione” bellezza, e se la riconosci nelle tue abitudini solo ora che ne leggi il nome, è ormai troppo tardi per tornare indietro.

mercoledì 27 febbraio 2013

Nel ring della misurabilità


“Rank” è la diciassettesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.




Sono primo io e sono l'ultimo
sono primo io e sono l'ultimo
è un fatto tipico
del gioco ciclico del ritmo mantrico
perciò
parole su parole
su milioni di parole
come cellule si scontrano
si moltiplicano 
conto quanto kunta kinte
e in quanto kunta kinte canto
Daniele Silvestri – Frankie Hi-Nrg, Kunta Kinte


Il “ranking mondiale” era, un tempo, espressione confinata alle telecronache televisive di sport minori, piú che minori, se non attigui all’esibizione circense. Oppure gli sport che, avendo un appeal piú internazionale che nazionale (il tennis, ad esempio) prediligevano tale parola per indicare il termine “classifica”. Il concetto di ranking, da quando esiste il PageRank, l’algoritmo di Google brevettato nel 2001 da Larry Page per misurare la “popolarità” di una pagina web, è cambiato – provvisoriamente – per sempre. Rank deriva da “ranc” (datato 1400) che deriva a sua volta da “ring”, anello, circolo. E questo anello (il ranking sociale, il “posto” in classifica, poiché “rank” è anche per “ceto, classe”) è stato spesso, in effetti, un ring, cioè scenario di lotte (lotta di classe?). Oggi il conflitto è spostato, rimosso. PageRank e AuthorRank sono nuovi campi di lotta, in cui la supremazia si misura, i link si pesano per numero e per sito di provenienza. Ecco riaffacciarsi un mito tipico dell’innovazione, cosí come l’abbiamo disegnata lungo questo Dizionario: piú che con la sempre citata “riproducibilità” di Benjamin, noi ci ritroviamo incessantemente alle prese con l’idea della “misurabilità”. L’autorevolezza di un autore in rete è misurabile, il suo posizionamento all’interno dei risultati di ricerca, e dei contenuti da lui prodotti o a lui riconducibili, diventa un indice misurabile del suo “esistere”, del consistere sul web. Il concetto di rank, di ranking, passa liberamente dagli oggetti alle idee, dalle istituzioni agli Stati. Si misurano le aziende, le nazioni, le loro economie (nella formula del rating mondiale) e, quindi, si misurano le persone, le loro vite. Volentieri si rinuncia, in tutti i campi, al fascino dell’indeterminatezza in virtú d’una furiosa ricerca di “ranking”: l’ansia ordinale, classificatoria, invade ogni elenco dell’innovazione, diventando subito cibo inscatolato dai media, i quali non mancano mai di segnalarci il primo, il decimo, il milionesimo, di qualsiasi cosa possa essere enumerata in forma d’elenco. 

lunedì 25 febbraio 2013

Mitologie urbane. Il mito dell’Evento


Tommaso Matano

Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.


La giovane studentessa intrappolata nel traffico mentre tenta di andare a lezione fotografa con il proprio smartphone la nebbia al di là del suo finestrino, caricando l’immagine su Facebook con la didascalia “Se il buongiorno si vede dal mattino…”. Sono le 8 e qualche minuto. La città è ancora nel dormiveglia.

Dopo poco arrivano i primi segnali d’apprezzamento. Un temerario si lancia in un commento: “Che ci fai già in piedi?”. Lo smartphone della ragazza si accende come un albero di Natale. Alcuni compagni d’università fanno fioccare i pollici levati del Mi piace, aderiscono al suo gesto pubblico, la sua condivisione.
Nel corso della giornata la nebbia si dirada. Sui social network non compaiono altre testimonianze del maltempo.

Passano le ore.

Quella stessa sera, la ragazza, insieme a molti amici, si reca presso un locale dove si svolge, con cadenza settimanale, una serata a tema. La sua partecipazione era già stata confermata, sempre tramite Facebook, con una lapidaria risposta (Parteciperò) a un Invito all’Evento formulato da un suo conoscente.

Alla festa la ragazza incontra molte persone di sua conoscenza con le quali si intrattiene, seppur distrattamente. Scatta di nuovo una fotografia, sempre con il suo smartphone, ma stavolta all’insegna del locale in cui si svolge la serata. Condivide la fotografia su Facebook, aggiungendo le persone con cui si trova e il luogo. Dopo aver reso pubblica la sua collocazione spazio-temporale, la ragazza si lascia coinvolgere dagli astanti, senza negare una sbirciatina allo smartphone che vibra ogniqualvolta qualcuno, dal proprio computer, o dal proprio telefono, clicca Mi piace in riferimento alla sua foto. Raggiunto un sufficiente grado d’approvazione del contesto sociale, cioè soddisfatte le aspettative degli amici (grazie al conseguimento di molti like), la ragazza è pronta a dedicarsi alla festa. La sua ansia da prestazione sociale è svanita.

Il giorno dopo la sua pagina Facebook testimonierà fedelmente che la ragazza ha partecipato all’evento. Vi saranno fotografie che la ritraggono, e persone che ne discutono.
Disciplinato, perfetto esemplare, ligio alle regole e proporzionato al contesto, la ragazza, con il gesto oblativo della condivisione, avrà finalmente svolto il suo dovere. La sua partecipazione sarà stata sensata soltanto nel momento in cui, nel prender parte all’evento, avrà reso partecipi anche gli altri utenti. Soltanto, cioè, se non avrà tradito le aspettative degli spettatori.

Ora vorremmo tentare di capire quale sia la differenza tra l’esperienza di quella fotografia scattata in solitudine ed esposta nella vetrina di una dimensione pubblica (il vissuto personale di una mattinata di nebbia), e il coinvolgimento in un accadimento collettivo.

In cosa divergono queste due dimensioni dell’intersoggettività virtuale?

Innanzitutto l’evento ci preesiste, e in qualche misura ci trascende. L’evento c’è indipendentemente dalla nostra individualità. L’evento, in quanto fenomeno collettivo, si dà in modo necessario e universale, quasi svincolato dalla volontà dei singoli. All’evento si può partecipare oppure no, esso dipende da noi solo indirettamente. Notiamo per inciso che perfino l’organizzatore è in qualche modo libero dal peso dell’istituzione dell’evento, che lo oltrepassa e sembra vivere di vita propria.

Mentre il vissuto personale viene alla presenza a partire dal nostro agire, l’evento in quanto fatto storico accade. La nostra foto del traffico ci fa alzare la voce per un attimo nel viavai delle informazioni della piazza virtuale; la nostra partecipazione all’evento secondo i dettami che il medium richiede è invece un gesto d’assenso, non di iniziativa.
È il dire sí a qualcosa che il contesto pretende, è il prender parte alla storia, essere presenti all’avvento di un fatto.

Il fenomeno della mattinata nebbiosa è creato dall’azione positiva di caricare la fotografia su Facebook e colorato dall’assiologia del commento che la accompagna. È un fatto che nella dimensione pubblica non esiste indipendentemente dal gesto che lo rende manifesto. Non si tratta di una notizia. È un vissuto, un insieme di percezioni e considerazioni, il grigio del cielo, il nervosismo causato dal traffico, la frenesia della mattina, la prospettiva amara di una lunga giornata, il tutto condensato in icona e offerto allo sguardo altrui.

L’evento invece si caratterizza per la somma dei vissuti che vivono al suo interno, e che non sono autonomi, perché dipendono dall’evento stesso. Il fatto è che l’immagine che noi tutti abbiamo dell’infrangersi dei due aerei contro le Torri Gemelle, l’undici settembre del 2001, si è strutturato come ricordo evenemenziale in quanto la storicità dell’accaduto è stata garantita dalla dimensione pubblica globale del fatto.

Un evento è tale quando gli viene dedicata attenzione da un mondo di persone.

I social network hanno il potere di riorganizzare questa esperienza, un tempo ottenuta solo grazie all’elaborazione collettiva dei grandi mezzi d’informazione.

I social network permettono di storicizzare, in piccolo, la festa cui siamo stati ieri sera. Lo fanno offrendoci la possibilità di condividere con gli altri la testimonianza dell’accaduto. Non solo: i social network (e gli smartphone) ci dicono che l’evento è testimoniabile in tempo reale, cioè che nell’attimo in cui si compie, l’accadimento è già storia. È già ripercorribile, riproducibile, rivisitabile, falsificabile. Il qui ed ora è già foto su Facebook, è già lí e sempre.

La ragazza che torna a casa dalla festa sa che a differenza del suo ricordo della mattina uggiosa, che pure Facebook le ha permesso di rendere pubblico, il suo vissuto della festa si inserirà in una rete elaborativa interconnessa e collettiva. Il suo vissuto della festa perderà cioè qualunque connotazione di suo vissuto per essere l’evento festa. E cosí anche la sua elaborazione del ricordo sarà necessariamente influenzata da questa modalità condivisa di discuterne, di ritrovarsi, di riconoscersi. Darà rilevanza a dei particolari emersi attraverso il confronto con gli altri, valuterà diversamente certi aspetti.

Questo è un fenomeno che avviene spesso quando siamo in contesti di compartecipazione, ad esempio quando vediamo un film insieme ad altre persone. Solitamente, lo si voglia o no, il giudizio degli altri influenza un po’ anche il nostro, direttamente o antiteticamente, perché la discussione sul film impone una presa di posizione dialettica che la visione in solitudine non richiede. Con l’elaborazione collettiva dell’evento sui social network, questa realtà viene iperbolizzata, sia dall’enormità della partecipazione alla “discussione”, sia dalla vaghezza dei termini del discutere. Un commento, due parole, un like: non è necessaria una vera argomentazione. In fondo, è sempre di Facebook che si sta parlando.

La partecipazione all’evento, in ultima analisi, ci garantirà l’appagamento di un riconoscimento. Nel prender parte ci scopriremo parte di qualcosa di grande, condiviso, pregresso, e in quanto testimoniabile e storicizzabile, in qualche modo sempiterno.

Nell’esservi ci identificheremo, ci conteremo, ci daremo un nome, un senso.

Sapremo di cosa si starà parlando quando se ne parlerà, ci chiederemo a vicenda se ricordiamo una circostanza piuttosto che un’altra. Ripercorreremo le dinamiche e i vissuti dell’evento, lo faremo per consolidarne la memoria, per evitarne l’oblio, lo faremo perché servirà per sentirci integri e integrati. Lo faremo per darci un volto, per sentirci parte della comunità che attraverso l’evento sarà inaugurata, o che attraverso l’evento (è il caso degli appuntamenti con cadenza ripetuta) sarà rinnovata.

Lo faremo per decidere di aver vissuto ciò che si dirà che sia accaduto.

Parteciperemo alla festa per darci la responsabilità di raccontarla.

Nel costruire la storia pubblica su ciò che è avvenuto, saremo anche noi autori, forse inconsapevoli, della mitologia dell’evento.





mercoledì 20 febbraio 2013

Stare negli store


“Store” è la sedicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.



Hanno veramente ragione i filosofi quando dicono che il grande e il piccolo
sono relativi. Forse i lillipuziani potrebbero trovare un popolo cosí piccolo, in
loro confronto, come essi parvero a me; e chi sa che questa genìa di uomini
colossali non sia a sua volta lillipuziana al paragone di qualche altra razza
vivente in un paese non ancora scoperto?
Jonathan Swift, I Viaggi di Gulliver

Per quale motivo il termine “store” si è diffuso cosí tanto? Nelle insegne dei negozi nelle strade, nelle periferie come in centro, nelle applicazioni, sul web. Lo “store” non è un negozio, non nega nessun ozio, anzi, perché lo store è un mondo semantico completo e autosufficiente (concept store) organizzato in modo da incoraggiare lo “stare” piú che il comprare. Lo store ci vende, propriamente, il tempo che ci spendiamo dentro, sia esso un luogo fisico, un’applicazione o un sito web,  poiché  si presenta come lo spazio logico e immateriale non piú dello scambio tra merci e desideri, quanto  del semplice esperire il contatto con essi: nello store impariamo, multisensorialmente, a  conoscere oggetti (ma anche beni immateriali) e, soprattutto, impariamo a riconoscere in noi il desiderio di quegli oggetti, di quei beni. Non vi è piú niente, nella parola attuale, né dell’originale inglese (un “magazzino”, già dal 1300), né del “instaurare” latino, né dello stauròs greco (che in quello neotestamentario da palo diviene “croce”). Lo store appare oggi luogo di salvezza, casachiesa di nuove religioni piú o meno volontarie dai loghi luminosi, oppure porto franco di statinazione immaginari. Lo stare negli store somiglia alla duplice esplorazione di Lemuel Gulliver nel suo incontro con i minuscoli lillipuziani, prima, e con i brobdingnaghesi colossali, poi: ci aggiriamo come giganti tra balocchi tecnologici o tra oggetti di un mondo miniaturizzato, in scala, custodito perché ricreato dai confini dello store; e allo stesso tempo, esso è il formicaio di occhi, di gambe e mani microscopiche – noi giocattolini, omuncoli, soldatini in paziente fila e attesa d’entrare, a volte pernottanti sui marciapiedi – nelle terre delle colossali aziende che li marchiano. L’ambiente fisico degli store è sempre trasparente, perché nella trasparenza vitrea delle sue pareti sia possibile specchiare la propria identità, pareti che servono a darci identità al pari della validazione cui lo store, nella sua forma immateriale, on line, ci sottopone quando chiede di “autenticarci”, di “loggarci”. Lo store autentica sempre un’esperienza di sé in cui l’acquistare è solo una componente, e nemmeno la piú importante, del processo di contatto con il marchio cui lo store appartiene. Non è lontano il giorno in cui gli store (fisici) architettonicamente piú interessanti genereranno viaggi e turismo, al pari dei musei antichi e moderni. O forse quel giorno è già passato.


mercoledì 13 febbraio 2013

Abilità intangibili


“Skill/Asset” è la quindicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.



L’Italia ha un asset nella manica
Lapo Elkann, 2013

Capacità di fare bene qualcosa; tecnica, abilità. Per “skill” s’intende, solitamente, un’abilità acquisita o imparata, a differenza delle abilità innate. Cosí, da dizionario. Un impasto di italiano e inglese costituisce ormai il patchwork di qualsiasi discorso si tenti, nella lingua di Dante, sui temi dell’innovazione – e anche, spesso, nei campi della formazione e del lavoro – in una giostra di plurali armonizzati tutti con la “s” finale. Ed è un dato tanto ovvio da non riuscire piú a suscitare nessun accento critico o osservazione originale, né tantomeno la ricerca d’una via di mezzo tra il protezionismo linguistico d’oltralpe (“Mot-dièse” che sostituisce, per legge, “hashtag”, gennaio 2013) e la nostra tradizionale anglofilia un poco facilona. Nei curricula si indicano le proprie “skills”, a loro volta divise in soft skill (competenze trasversali e relazionali) e hard skill (competenze tecniche). E già il suono dei due termini illude, il portatore di skill, che il suo curriculum riluca di una maggiore brillantezza, cosí ben conformato al “modo odierno”. Le abilità diventano un patrimonio, le abilità dei dipendenti di un’azienda entrano a fare parte degli “assets” dell’azienda stessa. Assets, cioè le risorse, i beni disponibili, deriva dal latino ad satis (abbastanza). Il singolare asset è un calco artificiale, attestato in inglese solo a partire dagli anni Settanta del Novecento. Dall’ambito unicamente economico che nel ‘500 ospita la parola inglese vi è un progressivo slittamento di significato, in una corsa che si arresta nel luminoso – e voluto – calembour citato qui sopra, “l’asset nella manica”. Indifferentemente troveremo usato “asset” per riferirsi alle caratteristiche proprie di un’azienda (molto di moda gli “asset intangibili”, cioè tutte quelle variabili non rappresentate nei bilanci ma che contribuiscono a crearne il valore – il “capitale umano”, la percezione che dell’azienda si ha nel mondo...) di una persona, di un prodotto, di una nazione intera. Il lessico dell’innovazione abdica volentieri all’esattezza, purché non venga mai a mancare l’elemento magico dei suoni stranieri, di mono e bisillabi lucenti. Quante skill e quanti asset ci vogliono per regalare a una Nazione il 37% di disoccupazione giovanile?