mercoledì 27 febbraio 2013

Nel ring della misurabilità


“Rank” è la diciassettesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.




Sono primo io e sono l'ultimo
sono primo io e sono l'ultimo
è un fatto tipico
del gioco ciclico del ritmo mantrico
perciò
parole su parole
su milioni di parole
come cellule si scontrano
si moltiplicano 
conto quanto kunta kinte
e in quanto kunta kinte canto
Daniele Silvestri – Frankie Hi-Nrg, Kunta Kinte


Il “ranking mondiale” era, un tempo, espressione confinata alle telecronache televisive di sport minori, piú che minori, se non attigui all’esibizione circense. Oppure gli sport che, avendo un appeal piú internazionale che nazionale (il tennis, ad esempio) prediligevano tale parola per indicare il termine “classifica”. Il concetto di ranking, da quando esiste il PageRank, l’algoritmo di Google brevettato nel 2001 da Larry Page per misurare la “popolarità” di una pagina web, è cambiato – provvisoriamente – per sempre. Rank deriva da “ranc” (datato 1400) che deriva a sua volta da “ring”, anello, circolo. E questo anello (il ranking sociale, il “posto” in classifica, poiché “rank” è anche per “ceto, classe”) è stato spesso, in effetti, un ring, cioè scenario di lotte (lotta di classe?). Oggi il conflitto è spostato, rimosso. PageRank e AuthorRank sono nuovi campi di lotta, in cui la supremazia si misura, i link si pesano per numero e per sito di provenienza. Ecco riaffacciarsi un mito tipico dell’innovazione, cosí come l’abbiamo disegnata lungo questo Dizionario: piú che con la sempre citata “riproducibilità” di Benjamin, noi ci ritroviamo incessantemente alle prese con l’idea della “misurabilità”. L’autorevolezza di un autore in rete è misurabile, il suo posizionamento all’interno dei risultati di ricerca, e dei contenuti da lui prodotti o a lui riconducibili, diventa un indice misurabile del suo “esistere”, del consistere sul web. Il concetto di rank, di ranking, passa liberamente dagli oggetti alle idee, dalle istituzioni agli Stati. Si misurano le aziende, le nazioni, le loro economie (nella formula del rating mondiale) e, quindi, si misurano le persone, le loro vite. Volentieri si rinuncia, in tutti i campi, al fascino dell’indeterminatezza in virtú d’una furiosa ricerca di “ranking”: l’ansia ordinale, classificatoria, invade ogni elenco dell’innovazione, diventando subito cibo inscatolato dai media, i quali non mancano mai di segnalarci il primo, il decimo, il milionesimo, di qualsiasi cosa possa essere enumerata in forma d’elenco. 

lunedì 25 febbraio 2013

Mitologie urbane. Il mito dell’Evento


Tommaso Matano

Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.


La giovane studentessa intrappolata nel traffico mentre tenta di andare a lezione fotografa con il proprio smartphone la nebbia al di là del suo finestrino, caricando l’immagine su Facebook con la didascalia “Se il buongiorno si vede dal mattino…”. Sono le 8 e qualche minuto. La città è ancora nel dormiveglia.

Dopo poco arrivano i primi segnali d’apprezzamento. Un temerario si lancia in un commento: “Che ci fai già in piedi?”. Lo smartphone della ragazza si accende come un albero di Natale. Alcuni compagni d’università fanno fioccare i pollici levati del Mi piace, aderiscono al suo gesto pubblico, la sua condivisione.
Nel corso della giornata la nebbia si dirada. Sui social network non compaiono altre testimonianze del maltempo.

Passano le ore.

Quella stessa sera, la ragazza, insieme a molti amici, si reca presso un locale dove si svolge, con cadenza settimanale, una serata a tema. La sua partecipazione era già stata confermata, sempre tramite Facebook, con una lapidaria risposta (Parteciperò) a un Invito all’Evento formulato da un suo conoscente.

Alla festa la ragazza incontra molte persone di sua conoscenza con le quali si intrattiene, seppur distrattamente. Scatta di nuovo una fotografia, sempre con il suo smartphone, ma stavolta all’insegna del locale in cui si svolge la serata. Condivide la fotografia su Facebook, aggiungendo le persone con cui si trova e il luogo. Dopo aver reso pubblica la sua collocazione spazio-temporale, la ragazza si lascia coinvolgere dagli astanti, senza negare una sbirciatina allo smartphone che vibra ogniqualvolta qualcuno, dal proprio computer, o dal proprio telefono, clicca Mi piace in riferimento alla sua foto. Raggiunto un sufficiente grado d’approvazione del contesto sociale, cioè soddisfatte le aspettative degli amici (grazie al conseguimento di molti like), la ragazza è pronta a dedicarsi alla festa. La sua ansia da prestazione sociale è svanita.

Il giorno dopo la sua pagina Facebook testimonierà fedelmente che la ragazza ha partecipato all’evento. Vi saranno fotografie che la ritraggono, e persone che ne discutono.
Disciplinato, perfetto esemplare, ligio alle regole e proporzionato al contesto, la ragazza, con il gesto oblativo della condivisione, avrà finalmente svolto il suo dovere. La sua partecipazione sarà stata sensata soltanto nel momento in cui, nel prender parte all’evento, avrà reso partecipi anche gli altri utenti. Soltanto, cioè, se non avrà tradito le aspettative degli spettatori.

Ora vorremmo tentare di capire quale sia la differenza tra l’esperienza di quella fotografia scattata in solitudine ed esposta nella vetrina di una dimensione pubblica (il vissuto personale di una mattinata di nebbia), e il coinvolgimento in un accadimento collettivo.

In cosa divergono queste due dimensioni dell’intersoggettività virtuale?

Innanzitutto l’evento ci preesiste, e in qualche misura ci trascende. L’evento c’è indipendentemente dalla nostra individualità. L’evento, in quanto fenomeno collettivo, si dà in modo necessario e universale, quasi svincolato dalla volontà dei singoli. All’evento si può partecipare oppure no, esso dipende da noi solo indirettamente. Notiamo per inciso che perfino l’organizzatore è in qualche modo libero dal peso dell’istituzione dell’evento, che lo oltrepassa e sembra vivere di vita propria.

Mentre il vissuto personale viene alla presenza a partire dal nostro agire, l’evento in quanto fatto storico accade. La nostra foto del traffico ci fa alzare la voce per un attimo nel viavai delle informazioni della piazza virtuale; la nostra partecipazione all’evento secondo i dettami che il medium richiede è invece un gesto d’assenso, non di iniziativa.
È il dire sí a qualcosa che il contesto pretende, è il prender parte alla storia, essere presenti all’avvento di un fatto.

Il fenomeno della mattinata nebbiosa è creato dall’azione positiva di caricare la fotografia su Facebook e colorato dall’assiologia del commento che la accompagna. È un fatto che nella dimensione pubblica non esiste indipendentemente dal gesto che lo rende manifesto. Non si tratta di una notizia. È un vissuto, un insieme di percezioni e considerazioni, il grigio del cielo, il nervosismo causato dal traffico, la frenesia della mattina, la prospettiva amara di una lunga giornata, il tutto condensato in icona e offerto allo sguardo altrui.

L’evento invece si caratterizza per la somma dei vissuti che vivono al suo interno, e che non sono autonomi, perché dipendono dall’evento stesso. Il fatto è che l’immagine che noi tutti abbiamo dell’infrangersi dei due aerei contro le Torri Gemelle, l’undici settembre del 2001, si è strutturato come ricordo evenemenziale in quanto la storicità dell’accaduto è stata garantita dalla dimensione pubblica globale del fatto.

Un evento è tale quando gli viene dedicata attenzione da un mondo di persone.

I social network hanno il potere di riorganizzare questa esperienza, un tempo ottenuta solo grazie all’elaborazione collettiva dei grandi mezzi d’informazione.

I social network permettono di storicizzare, in piccolo, la festa cui siamo stati ieri sera. Lo fanno offrendoci la possibilità di condividere con gli altri la testimonianza dell’accaduto. Non solo: i social network (e gli smartphone) ci dicono che l’evento è testimoniabile in tempo reale, cioè che nell’attimo in cui si compie, l’accadimento è già storia. È già ripercorribile, riproducibile, rivisitabile, falsificabile. Il qui ed ora è già foto su Facebook, è già lí e sempre.

La ragazza che torna a casa dalla festa sa che a differenza del suo ricordo della mattina uggiosa, che pure Facebook le ha permesso di rendere pubblico, il suo vissuto della festa si inserirà in una rete elaborativa interconnessa e collettiva. Il suo vissuto della festa perderà cioè qualunque connotazione di suo vissuto per essere l’evento festa. E cosí anche la sua elaborazione del ricordo sarà necessariamente influenzata da questa modalità condivisa di discuterne, di ritrovarsi, di riconoscersi. Darà rilevanza a dei particolari emersi attraverso il confronto con gli altri, valuterà diversamente certi aspetti.

Questo è un fenomeno che avviene spesso quando siamo in contesti di compartecipazione, ad esempio quando vediamo un film insieme ad altre persone. Solitamente, lo si voglia o no, il giudizio degli altri influenza un po’ anche il nostro, direttamente o antiteticamente, perché la discussione sul film impone una presa di posizione dialettica che la visione in solitudine non richiede. Con l’elaborazione collettiva dell’evento sui social network, questa realtà viene iperbolizzata, sia dall’enormità della partecipazione alla “discussione”, sia dalla vaghezza dei termini del discutere. Un commento, due parole, un like: non è necessaria una vera argomentazione. In fondo, è sempre di Facebook che si sta parlando.

La partecipazione all’evento, in ultima analisi, ci garantirà l’appagamento di un riconoscimento. Nel prender parte ci scopriremo parte di qualcosa di grande, condiviso, pregresso, e in quanto testimoniabile e storicizzabile, in qualche modo sempiterno.

Nell’esservi ci identificheremo, ci conteremo, ci daremo un nome, un senso.

Sapremo di cosa si starà parlando quando se ne parlerà, ci chiederemo a vicenda se ricordiamo una circostanza piuttosto che un’altra. Ripercorreremo le dinamiche e i vissuti dell’evento, lo faremo per consolidarne la memoria, per evitarne l’oblio, lo faremo perché servirà per sentirci integri e integrati. Lo faremo per darci un volto, per sentirci parte della comunità che attraverso l’evento sarà inaugurata, o che attraverso l’evento (è il caso degli appuntamenti con cadenza ripetuta) sarà rinnovata.

Lo faremo per decidere di aver vissuto ciò che si dirà che sia accaduto.

Parteciperemo alla festa per darci la responsabilità di raccontarla.

Nel costruire la storia pubblica su ciò che è avvenuto, saremo anche noi autori, forse inconsapevoli, della mitologia dell’evento.





mercoledì 20 febbraio 2013

Stare negli store


“Store” è la sedicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.



Hanno veramente ragione i filosofi quando dicono che il grande e il piccolo
sono relativi. Forse i lillipuziani potrebbero trovare un popolo cosí piccolo, in
loro confronto, come essi parvero a me; e chi sa che questa genìa di uomini
colossali non sia a sua volta lillipuziana al paragone di qualche altra razza
vivente in un paese non ancora scoperto?
Jonathan Swift, I Viaggi di Gulliver

Per quale motivo il termine “store” si è diffuso cosí tanto? Nelle insegne dei negozi nelle strade, nelle periferie come in centro, nelle applicazioni, sul web. Lo “store” non è un negozio, non nega nessun ozio, anzi, perché lo store è un mondo semantico completo e autosufficiente (concept store) organizzato in modo da incoraggiare lo “stare” piú che il comprare. Lo store ci vende, propriamente, il tempo che ci spendiamo dentro, sia esso un luogo fisico, un’applicazione o un sito web,  poiché  si presenta come lo spazio logico e immateriale non piú dello scambio tra merci e desideri, quanto  del semplice esperire il contatto con essi: nello store impariamo, multisensorialmente, a  conoscere oggetti (ma anche beni immateriali) e, soprattutto, impariamo a riconoscere in noi il desiderio di quegli oggetti, di quei beni. Non vi è piú niente, nella parola attuale, né dell’originale inglese (un “magazzino”, già dal 1300), né del “instaurare” latino, né dello stauròs greco (che in quello neotestamentario da palo diviene “croce”). Lo store appare oggi luogo di salvezza, casachiesa di nuove religioni piú o meno volontarie dai loghi luminosi, oppure porto franco di statinazione immaginari. Lo stare negli store somiglia alla duplice esplorazione di Lemuel Gulliver nel suo incontro con i minuscoli lillipuziani, prima, e con i brobdingnaghesi colossali, poi: ci aggiriamo come giganti tra balocchi tecnologici o tra oggetti di un mondo miniaturizzato, in scala, custodito perché ricreato dai confini dello store; e allo stesso tempo, esso è il formicaio di occhi, di gambe e mani microscopiche – noi giocattolini, omuncoli, soldatini in paziente fila e attesa d’entrare, a volte pernottanti sui marciapiedi – nelle terre delle colossali aziende che li marchiano. L’ambiente fisico degli store è sempre trasparente, perché nella trasparenza vitrea delle sue pareti sia possibile specchiare la propria identità, pareti che servono a darci identità al pari della validazione cui lo store, nella sua forma immateriale, on line, ci sottopone quando chiede di “autenticarci”, di “loggarci”. Lo store autentica sempre un’esperienza di sé in cui l’acquistare è solo una componente, e nemmeno la piú importante, del processo di contatto con il marchio cui lo store appartiene. Non è lontano il giorno in cui gli store (fisici) architettonicamente piú interessanti genereranno viaggi e turismo, al pari dei musei antichi e moderni. O forse quel giorno è già passato.


mercoledì 13 febbraio 2013

Abilità intangibili


“Skill/Asset” è la quindicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.



L’Italia ha un asset nella manica
Lapo Elkann, 2013

Capacità di fare bene qualcosa; tecnica, abilità. Per “skill” s’intende, solitamente, un’abilità acquisita o imparata, a differenza delle abilità innate. Cosí, da dizionario. Un impasto di italiano e inglese costituisce ormai il patchwork di qualsiasi discorso si tenti, nella lingua di Dante, sui temi dell’innovazione – e anche, spesso, nei campi della formazione e del lavoro – in una giostra di plurali armonizzati tutti con la “s” finale. Ed è un dato tanto ovvio da non riuscire piú a suscitare nessun accento critico o osservazione originale, né tantomeno la ricerca d’una via di mezzo tra il protezionismo linguistico d’oltralpe (“Mot-dièse” che sostituisce, per legge, “hashtag”, gennaio 2013) e la nostra tradizionale anglofilia un poco facilona. Nei curricula si indicano le proprie “skills”, a loro volta divise in soft skill (competenze trasversali e relazionali) e hard skill (competenze tecniche). E già il suono dei due termini illude, il portatore di skill, che il suo curriculum riluca di una maggiore brillantezza, cosí ben conformato al “modo odierno”. Le abilità diventano un patrimonio, le abilità dei dipendenti di un’azienda entrano a fare parte degli “assets” dell’azienda stessa. Assets, cioè le risorse, i beni disponibili, deriva dal latino ad satis (abbastanza). Il singolare asset è un calco artificiale, attestato in inglese solo a partire dagli anni Settanta del Novecento. Dall’ambito unicamente economico che nel ‘500 ospita la parola inglese vi è un progressivo slittamento di significato, in una corsa che si arresta nel luminoso – e voluto – calembour citato qui sopra, “l’asset nella manica”. Indifferentemente troveremo usato “asset” per riferirsi alle caratteristiche proprie di un’azienda (molto di moda gli “asset intangibili”, cioè tutte quelle variabili non rappresentate nei bilanci ma che contribuiscono a crearne il valore – il “capitale umano”, la percezione che dell’azienda si ha nel mondo...) di una persona, di un prodotto, di una nazione intera. Il lessico dell’innovazione abdica volentieri all’esattezza, purché non venga mai a mancare l’elemento magico dei suoni stranieri, di mono e bisillabi lucenti. Quante skill e quanti asset ci vogliono per regalare a una Nazione il 37% di disoccupazione giovanile?

mercoledì 6 febbraio 2013

Le persone, forse


“Iot” (Internet of Things) è la quattordicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.


La nostra azienda crede fortemente negli sviluppi dell’Internet of Things, nell’interazione sempre maggiore tra urbanità, device, sensori, RFID e smartphone come nodi intelligenti di un nuovo modo di abitare il reale tutto. “Abilitante”, ecco il participio presente che ammanta ogni tecnologia propria della “Internet delle cose”. Ad esempio, abbiamo sviluppato un’applicazione chiamata Communication LifeDetector (CO.L.D) che fa comunicare i cartoni, che gli homeless adoperano per ricoverarsi la notte agli angoli delle strade, con i loro smartphone, in modo tale che se la temperatura del cartone scende sotto lo zero il telefono inizia a vibrare – come se avesse freddo e sveglia il senzatetto, evitandogli di morire congelato. Questa è città intelligente! L’investimento per infilare i sensori dentro i cartoni, in modo da mappare tutti i cartoni usati dagli homeless nella metropoli, è stato consistente, diverse centinaia di migliaia di euro. Il progetto è nato parallelamente al precedente “Homeless Hotspots”, un nostro successo diventato famoso per le antenne ambulanti , apparecchi 4g-to-wifi affidate ad alcuni senzatetto in giro per la città. Nel campo della domotica, invece, abbiamo sviluppato un’applicazione, On Display Olfactive Reaction (OD.O.Re), che imposta automaticamente il tempo e tutti i settaggi di lavaggio in lavatrice di un capo d’abbigliamento quando questo è troppo sporco. Infine, nel campo del commercio, si è sviluppata un’app, Cybernetic Nfc Information Comparison (Cy.N.I.Co) che permette, inquadrando un oggetto con la fotocamera del telefono, di confrontare il prezzo del prodotto presente in un punto vendita con tutti i prodotti identici e a minor prezzo presenti nei negozi concorrenti nel raggio di 2,5 chilometri, di sapere se è stato manufatto da operai minorenni thailandesi, e quale sia la probabilità che il prodotto divenga obsoleto e perda l’85% del suo valore nel lasso di tempo di tre mesi. La nostra azienda si pone come leader europea nella Cem (Customer Experience Management) e il nostro mercato saranno i miliardi di apparati diversi device a persona connessi alla rete da qui ai prossimi dieci anni. Le città saranno sempre piú intelligenti nella IoT. Le persone, forse.

Soltanto una delle “innovazioni” annunciate nel testo è già stata realizzata. Quale?