martedì 25 settembre 2012

La tempesta perfetta


William Turner, La tempesta, 1842, London Tate Gallery
Alexander M. Orlando incarna con evidenza quasi cinematografica il senso del rischio che struttura il lavoro del venture capitalist. Un “capitano di ventura” che si esalta quando il mare si fa grosso e i nemici agguerriti. Il kubernetes, del resto, il timoniere è, etimologicamente, colui che deve trovare il varco attraverso le difficoltà della navigazione

Di fronte alla platea della Open Assemblea degli Stati generali dell’innovazione Orlando rappresenta il cacciatore di idee, alleato della disruption: l’innovazione che genera discontinuità. E che vede nei momenti di sofferenza economica e imprenditoriale la tempesta perfetta. Perfetto il 2002, all’indomani del dotcom crash: l’evaporazione di aziende e capitali riempie le strade di intelligenze “liquidate”, pronte a utilizzare il fallimento come materia prima per la produzione del nuovo. Perfetta l’alba del giorno dopo la crisi finanziaria, che sta travolgendo una certa ideologia dello sviluppo, ridiscute posizioni e gerarchie, e spazza via modelli di business. Come da convocazione, gli Stati generali dell’innovazione operano nella convinzione che solo elaborando idee disruptive, capaci di scardinare le cristallizzazioni, di liberare le energie sepolte dalle stratificazioni dell’abitudine, si potrà trovare il varco attraverso la tempesta perfetta.

Il discorso di Orlando è la sintesi icastica delle giornate di Bertinoro. Un brainstorming sull’innovazione, che ha incrociato esperienze e punti di vista. Un luogo per esercitarsi nella costruzione di scenari capaci di deviare il corso dell’esistente. Progettando una ristrutturazione profonda dei territori, modi diversi di fare comunità e di potenziare l’intelligenza delle relazioni. Puntando soprattutto sull’apertura, un concetto trasversale che unifica e organizza i diversi orizzonti dell’innovazione. Aperte sono le reti, i software, i dati della pubblica amministrazione, le strategie della partecipazione politica. Ma soprattutto aperte sono le visioni, i linguaggi, le possibilità di immaginazione. Si afferma la necessità e l’ambizione di costruire una nuova antropologia culturale. Chiamata ad abbandonare una certa idea umanistica di valore assoluto, e ad affrontare la complessità e la pervasività dei dispositivi che determinano l’esistenza e che rappresentano una vera e propria sfida alla centralità dell’umano.

La disponibilità delle risorse è maggiore delle idee in circolazione, dice Orlando recitando il mantra dell’investitore. Ma si potrebbe tradurre: la tempesta che stiamo attraversando promette passaggi che aspettano di essere inventati


lunedì 24 settembre 2012

L’Europa delle città


Johan Putsch, Carta antropomorfa dell’Europa regina, 1537

Questo testo apre un’inchiesta collettiva su L’Europa delle città, che verrà prodotta in collaborazione con il blog Il Bureau: racconteremo, attraverso esperienze professionali e di vita, esempi di intelligenza urbana che attivano il sapere creativo delle città, e possono offrire modelli di riconnessione del tessuto culturale europeo.

Che nelle università europee non si studino piú le economie di Asia, Africa e America Latina alla rubrica Expansion of Europe, come accadeva ad Amartya Sen giovane studente di Cambridge, probabilmente non è un sintomo di decadenza. Piú stringente la sentenza di Sartre, citata da Sen: “Cos’è successo? Semplicemente che eravamo i soggetti della storia e adesso ne siamo gli oggetti.” 

Scivolata lentamente, nel corso del Novecento, dal centro del mondo verso una paradossale posizione periferica, l’Europa ha sfumato i propri connotati politici e culturali, e si è consegnata all’orizzonte piatto di una crisi finanziaria acefala, ingovernabile, che sembra essersi autogenerata senza produrre responsabilità. Il progetto unitario europeo nasce da un’esigenza politica e umanitaria, ma deraglia presto verso una traiettoria burocratica. La politica monetaria ha generato tensioni disgregatrici. Il ricatto emergenziale risveglia le miopi, violente tentazioni regionalistiche, alimentate da un risentimento identitario sempre sul punto di degenerare nell’odio. La discussione pubblica e la progettazione politica necessarie a recuperare il significato della solidarietà europea devono passare attraverso la riconnessione dei tessuti culturali e l’elaborazione di una visione comune. Secondo una prospettiva capace di ripensare l’umanesimo, ovvero il nucleo dell’idea di Europa, e di “coniugare ciò che la crisi attuale ci ha fatto credere separato: il rigore dei bilanci e gli investimenti nelle conoscenze, nella cultura, nella formazione, nella rigenerazione dei legami sociali; la direzione e la partecipazione; le culture umanistiche e le culture scientifiche; lo sviluppo economico e lo sviluppo umano integrale.”

L’Europa, concetto politico sempre in formazione, è esistita compiutamente dapprima nella sfera delle relazioni intellettuali. È stata la cultura, molto in anticipo sulla moneta, a fare l’Europa. Il riverbero lungo del Rinascimento produce quello che Montale chiama il “mito dell’uomo europeo”, attraverso il quale la cultura nel Novecento cerca di resistere all’incrudelire dei nazionalismi. A una Storia d’Europa Croce consegna la “religione della libertà” minacciata dai fascismi: e i giovani intellettuali degli anni Venti oppongono le aperture verso la cultura europea alle asfittiche chiusure autarchiche. Piero Gobetti, perseguitato dal regime mussoliniano, lascia l’Italia per Parigi con l’intenzione di diventare “editore europeo”. Mentre la guerra civile europea degenerata in conflitto mondiale lacera il continente, la filologia, da Auerbach a Curtius a Contini, riscopre il patrimonio romanzo che ha strutturato attraverso i secoli l’immaginario condiviso degli uomini europei. Compilando un catalogo della memoria da strappare all’oblio che incombe sull’Europa.

Il mito dell’uomo europeo fa dell’Europa un’unica grande città, descritta dagli intellettuali poliglotti che la attraversano. Per George Steiner l’idea di Europa si inscrive nello spazio che va da Atene a Gerusalemme, da Socrate a Isaia. L’Europa è la mappa dei suoi caffè, la somma delle sue piazze, dei luoghi in cui possono sostare e prendere appunti il poeta, il filosofo, il vagabondo. L’Europa è il labirinto delle strade che dà forma alla poesia di Baudelaire e alle idee di Benjamin. Attraverso l’Europa si aggira lo spettro evocato da Marx sulla soglia del Capitale: perché il continente è innanzitutto percorribile, e la sua storia è il riflesso della sua geografia. “L’Europa è stata, e viene ancora, camminata”: c’è sempre una distanza commensurabile tra qui e il prossimo campanile. Esiste una relazione originaria tra la misura dell’uomo elaborata dalla cultura europea e il paesaggio. Spazio e tempo dell’Europa sono antropomorfi. La poesia e la filosofia hanno natura pedestre, si accompagnano al ritmo del camminatore. Che è sempre seguito dall’ombra del mendicante, dello spirito errante. Attraverso la toponomastica l’Europa si autodefinisce come luogo della memoria, come rete di punti culturalmente saturi, che comprende anche i buchi neri delle stragi, dei genocidi, della violenza disumana. “Un europeo colto si trova intrappolato nella ragnatela di un in memoria luminoso e insieme soffocante.” Ma non può fare a meno di riattraversare lo spessore storico degli spazi che hanno prodotto il suo pensiero. “L’Europa dimentica se stessa quando dimentica di essere nata dall’idea di ragione e dallo spirito della filosofia.” Già una volta, scrive Steiner, l’Europa si è suicidata uccidendo gli ebrei, ovvero l’altro che la definiva. Lo spirito europeo, deportato e strappato dal cuore delle città, si è estinto, lasciando la cenere di un’espressione geografica e di un’entità economica tenuta insieme dalla burocrazia. Nel deserto di quella cenere la cultura si è incaricata di ricostruire il racconto di una civiltà, di rammendare i testi fatti a pezzi, di riattivare la memoria straziata. Di ritrovare sotto le macerie la traccia di senso che disegna la forma delle città.

Oggi dalla capacità di raccontare, riattivandola, l’intelligenza delle città, “icone fragili” della civiltà europea, muove la ricostruzione culturale ed economica del continente. All’Expo di Shanghai del 2010 un padiglione rappresentava la vita urbana come sorretta da due colonne di volumi: i libri sull’utopia. “Da Campanella a Platone, da Confucio alla Bibbia ciò che impedisce ad Atene di diventare Sodoma, insegnava la Cina, è qualcosa di impalpabile e solidissimo.” Una produzione immateriale di significati “che rende la città il moltiplicatore di sviluppo, di conoscenza, di interessi, di conflitti. Non a caso la modernità della guerra colpisce le città: per distruggere questo tessuto piú e come le infrastrutture. E non per niente la modernità ha bisogno di spazi urbani per moltiplicare bisogni e opportunità, nel mondo cosí come in Europa.”

giovedì 20 settembre 2012

Superare se stessi


Antonio Canova, Ercole e Lica, 1795-1815

Dal 21 al 23 settembre si svolgerà al Centro Residenziale Universitario di Bertinoro la Open Assemblea degli Stati Generali dell’Innovazione. Tre giorni per discutere, a partire dall’Agenda Digitale, le prospettive di medio e lungo periodo dell’innovazione digitale in Italia, osservate attraverso uno sguardo non convenzionale.

In apertura venerdí 21 settembre, alle 21 e 30, si svolgerà un talk show su Le generazioni dell’innovazione: una conversazione condotta da Carlo Massarini con alcuni protagonisti dell’innovazione in Italia (tra cui Renato Parascandolo, ex direttore di Rai Educational e ideatore di Mediamente; Giampaolo Amadori, amministratore delegato di Ceub e di Fondazione Alma Mater; Flavia Marzano, presidente di Stati Generali dell’Innovazione; Frieda Brioschi di Wikipedia; Marco Fratoddi, direttore de La Nuova Ecologia). Alcuni video di repertorio, dagli anni Ottanta a oggi, ripercorreranno il succedersi di trasmissioni televisive che hanno scandito il ritmo dell’innovazione nell’immaginario collettivo. Con l’obiettivo di mostrare che il futuro ha una sua storia e che oggi è possibile capitalizzare l’esperienza disseminata e non messa a sistema in un Paese che perde competitività perché disperde know how.

Il programma prosegue sabato con un brainstorming su Idee e visioni oltre l’Agenda Digitale, alimentato dalle idee condivise attraverso la piattaforma Ideascale. Nel pomeriggio una serie di open talk culminerà nella conversazione su Come Innovare, con la partecipazione di Alexander M. Orlando, direttore esecutivo presso SocialUtilities Inc., ed esperto di open innovation, e (in videoconferenza dagli Usa) del senatore Harris B. McDowell III, presidente del Sustainable Energy Utility Oversight Board. Durante i tre giorni del convegno Luca Sossella Editore sarà presente con una sua “vetrina”, che esporrà tra gli altri il libro di Andrea Granelli Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities
 
“Ci vediamo all’Open Assemblea degli Stati Generali dell’Innovazione” dice Flavia Marzano, presidente di Stati generali dell’Innovazione. “Non ve ne pentirete, non ce ne pentiremo perché condividiamo in pieno le parole di Albert Einstein: non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la piú grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà piú valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza. L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie d’uscita. Senza la crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla.”

mercoledì 19 settembre 2012

Visitatori virtuali


Wim Wenders, Fino alla fine del mondo, 1991
Planum è una rivista edita dall’Istituto Nazionale di Urbanistica. Una piattaforma che connette modelli ed esperienze in una prospettiva europea, facendo convergere i progettisti, le figure professionali, i ricercatori che si occupano dello sviluppo della città e della pianificazione degli ambienti pubblici.


Per raccontare la mostra di architettura della Biennale di Venezia Planum ha organizzato un tour virtuale: commenti, foto, video verranno trasmessi in tempo reale dalla mostra, mentre i “visitatori remoti” potranno interagire con la redazione della rivista orientando i percorsi e suggerendo approfondimenti. Planum sarà venerdì 21 settembre all’Arsenale e sabato 22 ai Giardini

lunedì 17 settembre 2012

La città di vetro




Una città liquida che scivola lungo piani invisibili, rispondendo alla vibrazione dei segni. Il video di Yaron Steinberg mostra una sequenza di titoli cinematografici creata per un progetto di studio della Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme. Steinberg sperimenta un accordo musicale tra animazione tipografica e movimenti architettonici. Immaginando una città disponibile alla trasformazione attraverso l’adesione a flussi immateriali e simbolici. Sulle tracce della City of glass di Paul Auster, primo movimento della Trilogia di New York: un occhio attraversa la città nel tentativo disperato di connettere i frammenti dell’esistenza urbana, per creare il dizionario di una lingua nella quale le parole coincidano nuovamente con le cose. Gli itinerari determinati dagli oggetti/segni producono una mappa incongrua della città, che confonde le identità e apre alla conoscenza vertiginosa di dimensioni ignote.

© Yaron Steinberg

© Yaron Steinberg
© Yaron Steinberg



sabato 15 settembre 2012

Terreno comune

di Nicolò Troianiello

MRDV
Un’istantanea della situazione mondiale scattata dalla mente degli architetti, una considerazione profonda sui rapporti e sulle intersezioni che si instaurano tra architettura e società civile, tra progetto e comunità, tra cultura ed economia. La presa di coscienza della necessità di fare un salto di qualità nell’analisi del mondo contemporaneo e sforzarsi per condividere saperi, esperienze, unire storie e spazi al fine di fronteggiare una crisi ormai assodata dell’architettura nella società di oggi, o almeno per suggerire un ruolo, civile e figurativo, che l’architettura potrebbe avere per affrontare la profonda metamorfosi che sta coinvolgendo tutti. In particolare il mondo occidentale.
Queste sono solo alcune delle molteplici chiavi interpretative della tredicesima edizione della Mostra Internazionale d’Architettura della Biennale di Venezia, curata dall’architetto inglese David Chipperfield, in programma dal 29 agosto al 25 novembre. Common Ground, ovvero terreno comune.

“Con il tema di quest’anno, Common Ground, si torna a parlare di architettura” spiega Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia: per aiutare gli architetti a uscire dalla crisi d’identità che stanno vivendo, e nello stesso tempo offrire al pubblico la possibilità di guardare dentro l’architettura, rendersela familiare e scoprire che ad essa si può chiedere qualcosa, che il diverso è possibile, che non siamo condannati alla mediocrità. David Chipperfield spiega la scelta di questo tema come un tentativo di “stimolare i colleghi a reagire alle prevalenti tendenze professionali e culturali del nostro tempo che tanto risalto danno alle azioni individuali e isolate. Ho voluto incoraggiarli a dimostrare, invece, l’importanza dell’influenza e della continuità dell’impegno culturale, a illustrare idee comuni e condivise le quali costituiscono la base di una cultura architettonica.”
La Biennale, come esposizione, come manifestazione artistica, ha una grande responsabilità. Il suo ruolo diventa cruciale soprattutto nei momenti di crisi e di tensione. Sociale, economica e culturale. È un indicatore dello Stato dell’Arte. Dovrebbe spiazzare e sedurre, provocare visioni e trasportarci in paesaggi sconosciuti, inesplorati, semplicemente nuovi, della mente e dell’immaginazione e spronarci a elaborare idee da percorrere, concrete e propositive, in risposta ai problemi che la “contemporaneità” ci obbliga ad affrontare. La realtà ci costringe a costatare che risulta sempre piú difficile e delicato non solo offrire possibili soluzioni ma suggerire e proporre ipotesi strategiche realmente originali, forti e convincenti. È un periodo di crisi evidente, non solo del mondo dell’architettura ma del pensiero stesso sull’architettura. È proprio questo stato di crisi che occupa in maniera drammatica le coscienze e le menti, la crisi in cui oggi affonda la società e quindi l’architettura, che ci spinge a ridiscutere e ri-dimensionare il ruolo dell’architetto, in particolare a ridefinirne i contorni sociali, e a rimarcarne l’ormai definitiva discesa dal piedistallo dopo anni di protagonismi e spettacolarizzazioni spesso effimere.

Herzog e de Meuron
La scelta del curatore della mostra David Chipperfield di intitolare la 13° edizione della Biennale d’Architettura “Common Ground” appare proprio come la volontà di aprire un dialogo razionale su questi problemi. Common Ground, radici comuni, storia, tradizioni, temi che stanno particolarmente a cuore all’architetto inglese, sono il filo rosso che attraversa tutto il percorso della mostra, dai Giardini all’Arsenale, insieme all’idea di una regia aperta, controllata e di qualità. A cominciare dalla scelta dei materiali per gli allestimenti, che risultano ben studiati, semplici ed equilibrati, come mirato appare anche l’uso delle tecnologie (per la prima volta da quest’anno l’intero catalogo della mostra sarà sfogliabile in versione digitale, con informazioni sulle opere e sugli autori). L’attenzione si concentra non tanto sui caratteri generici e complessivi delle città, ma sul corpo dell’architettura, sulla sua scala, sulle relazioni che si instaurano con le persone che ne usufruiscono. Un processo cominciato con la precedente edizione curata dalla giapponese Kazuyo Sejima, People meet in architecture, e prolungato con efficacia dall’edizione in corso. Al contrario della Biennale del 2010, molto poetica e a tratti visionaria, questa risulta un’edizione piú concentrata sulla realtà, in particolare sui mali storici, culturali, piú spesso riscontrabili nel vecchio continente. Casi di abbandono del patrimonio edilizio, di cattive gestioni e di anarchie, di pianificazioni urbanistiche disordinate e disorganizzate come quelle documentate nel film Freeland di MVRDV. Concretezza è la parola d’ordine. L’esigenza di ripartire da quello che si ha. Fare bene i conti con quello che c’è. I 67 architetti invitati sembrano tutti aver colto a pieno l’invito e interiorizzato al meglio le intenzioni di Chipperfield. Da Zaha Hadid a Grafton Architects, da Fulvio Irace a Eduardo Souto de Moura, da Toshiko Mori a Norman Foster.


Peter Zumthor
Emblematica l’installazione Spain, mon amour di Luis Fernández-Galiano: all’indomani dell’esplosione della bolla immobiliare la Spagna cerca di interrogarsi sul complicato futuro dei professionisti spagnoli. L’impronta della crisi è visibile, crisi non solo economica ma politica, come emerge dallo studio esposto su trittici dall’aspetto sacrale, dedicato alla progettazione delle New Towns di Crimson Architectural Historians, in cui è evidente la mancanza di ideali di comunità, emancipazione e progresso alla base dell’idea progettuale. Emergenze sociali come l’abusivismo in Italia raccontato da Alison Crawshaw nel Padiglione Centrale, mediante un’istallazione sulla facciata, “il grande balcone”, sulla quale viene proiettato un video chiamato “volo sulle toponimie”. Crisi di pensiero, testimoniata dalle riviste specializzate scomparse schierate come un monito da Steve Parnell sempre al Padiglione Centrale. OMA (Rem Koolhaas, Ellen van Loon) espone all’Arsenale le opere pubbliche di diverse municipalità, in particolare inglesi e olandesi degli anni Settanta, che si sono distinte nel tempo come esempi di spazi urbani intelligenti e di alta qualità. 13178 Moran Street si riunisce e si organizza a Detroit in seguito alla crisi che ha sconvolto la città americana, per comprare una casa vuota a un’asta pubblica e ridare nuova vita all’immobile come segno di rinascita e speranza. Alejandro Aravena, SANAA, Elke Krasny sperimentano forme di progettazione partecipata e condivisa con la cittadinanza per restituire forma e vita a villaggi e quartieri disabitati o, come nel caso del giappone, a Sendai, letteralmente spazzati via dallo tzunami. La partecipazione sembra proprio essere il leit motiv dell’intera mostra. Sottolineato dal Leone d’oro andato ai venezuelani Urban–Think Thank e all’installazione Gran Horizonte: un bar-ristorante con cibo tradizionale sudamericano realizzato all’interno dell’Arsenale come luogo di aggregazione sociale. Gli architetti e gli abitanti di Caracas sono riusciti a creare una nuova comunità partendo da un edificio abbandonato. L’ispirazione è l’architettura partecipata, il coinvolgimento degli abitanti come parte attiva del processo di occupazione o appropriazione dello spazio, che suggerisce tutta la forza propositiva e la determinazione delle associazioni informali.


Norman Foster
David Chipperfield, in linea con la propria formazione culturale, non trascura la componente linguistica dell’architettura, la forma come espressione, l’esercizio dialettico. Troviamo cosí il risultato di una forte tradizione accademica in Hans Kollhoff, di un’esigenza di contatto tra Storia e Linguaggio formale dell’architettura in Caruso St. John, oppure i segni di una cultura materiale come la casa costruita in scala 1:1 dall’indiana Anupama KundooLungo queste direttrici si modella il percorso degli architetti premiati con il Leone d’argento, andato alle giovani irlandesi Grafton per l’interessante presentazione di un nuovo campus universitario a Lima, sulla base di un’attenta rilettura delle architetture del brasiliano Paulo Mendes da Rocha, e con la menzione speciale della giuria assegnata a Cino Zucchi. Autore di un’installazione basata sulla differenza all’interno dell’uguaglianza, sulla ricchezza della similitudine. È argomento di riflessione invece la natura del padiglione italiano, forse indebolito dal fatto di non aver presentato proposte architettoniche originali, complice anche il ritardo della nomina del curatore. “L’Italia rimane la patria spirituale dell’architettura”, riflette Chipperfield. “È qui che si può comprendere pienamente l’importanza dell’edificio non come spettacolo individuale, bensí come manifestazione di valori collettivi e scenario della vita quotidiana. Tali presupposti mi hanno portato a concentrarmi sull’apparente mancanza di intesa tra la professione e la società.”

“Non è un anno come gli altri, il common ground deve tradursi in un progetto concreto e visionario, in cui cultura ed economia scrivano un nuovo patto.” Questa la “doverosa premessa” di Luca Zevi, curatore del Padiglione Italia.
Il progetto curatoriale del Padiglione Italia si basa sulla scommessa della possibile riscrittura del “patto”, luogo fertile e condiviso, tra le ragioni dell’architettura, del territorio, dell’ambiente e dello sviluppo economico. Un common ground tra imprenditoria e architettura, tassello imprescindibile per una futura ripresa. Il racconto descrive le “quattro stagioni” dell’architettura del Made in Italy (I Adriano Olivetti, nostalgia di futuro; II L’assalto al territorio; III Architetture del Made in Italy; IV reMade in Italy) lungo un percorso accidentato e fecondo, votato alla ricerca di un rapporto virtuoso tra architettura, crescita e innovazione. In particolare viene raccontata l’esperienza di uno dei piú grandi e illuminati industriali del secolo scorso, Adriano Olivetti. Un percorso inteso come paradigma di un modello di sviluppo in cui politica industriale, politiche sociali e promozione culturale si integrano nella proposta di una strada innovativa nella progettazione delle trasformazioni del territorio. La sua visione è stata definita “utopistica” ma appare, viceversa, una strategia vincente, declinata al futuro, animata da esigenze urgenti e attuali.

Giusta sintesi concettuale e simbolica l’acclamata assegnazione da parte del Cda della Biennale, proprio il giorno d’inaugurazione della mostra, del Leone d’Oro alla carriera all’architetto portoghese Alvaro Siza, che merita di essere paragonato a uno dei piú grandi poeti del secolo scorso, Fernando Pessoa, con il quale condivide non solo le origini, ma anche un’idea della visione: “perché ho la dimensione di ciò che vedo e non la dimensione della mia altezza”, si legge nel Libro dell’inquietudine.

Nicolò Troianiello ha studiato architettura all’Università degli Studi Roma Tre, alla Fay Jones School of Architecture della University of Arkansas, e alla Cambridge School of Architecture della University of Waterloo. Fa parte di un gruppo di progettazione formato da giovani architetti e lavora come assistente e tutor per corsi e workshop internazionali di progettazione architettonica all’Università degli Studi Roma Tre. Nel 2009 ha vinto il concorso per la realizzazione di un monumento a ricordo degli internati e delle vittime del campo di concentramento “Le Fraschette ad Alatri”.

lunedì 3 settembre 2012

Verso la città intelligente


Cittalia, istituto di ricerche dell’Anci, ha pubblicato un ebook dal titolo Il percorso verso la città intelligente. Il fenomeno “smart” ha prodotto in poco tempo una proliferazione di discorsi che rende difficile uno sguardo sintetico sull’evoluzione del dibattito e sulle esperienze applicative piú importanti. La pubblicazione di Cittalia, si legge nell’introduzione, offre un orientamento ai cittadini e agli operatori “riportando la voce di coloro che si occupano quotidianamente di pianificare e implementare politiche innovative e intelligenti” per lo sviluppo dei contesti urbani.

Il libro è aperto da un intervento di Paolo Testa, direttore di Cittalia, che afferma la necessità di una intelligenza “preliminare” dei luoghi e delle comunità: un’idea di città e una cultura della progettazione urbana devono precedere l’applicazione delle piattaforme tecnologiche. Di seguito Gloria Piaggio “ricorda, attraverso l'esperienza di Genova, l’importanza della leadership locale nella guida dei processi di pianificazione integrata.” Giovanni Menduni racconta “come a Firenze si sta cercando di cavalcare un processo di innovazione ineludibile quale quello che le tecnologie stanno imprimendo alle nostre città.” Andrea Granelli, autore del libro Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities, racconta le città come “luoghi deputati a raccogliere e vincere la sfida lanciata dall’economia dei servizi, proprio a partire dai centri storici e dal loro grande patrimonio culturale.” A Torino Elisa Rosso e Gianfranco Presutti “si stanno concentrando sul difficile compito di coniugare bisogni, risorse e competenze attraverso un’adeguata pianificazione e la partecipazione ai network internazionali.” Infine Claudio Forghieri spiega “l’importanza dei dati, della loro accessibilità, affidabilità, dell’uso che se ne fa per conoscere e misurare la città e della difficoltà di trasformare tutto ciò in cultura civica.”