di Nicolò
Troianiello
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MRDV |
Un’istantanea della situazione mondiale scattata dalla mente degli architetti, una
considerazione profonda sui rapporti e sulle intersezioni che si instaurano tra
architettura e società civile, tra progetto
e comunità, tra cultura ed economia. La presa di coscienza della necessità
di fare un salto di qualità nell’analisi del mondo contemporaneo e sforzarsi
per condividere saperi, esperienze, unire storie e spazi al fine di fronteggiare
una crisi ormai assodata dell’architettura nella società di oggi, o almeno per
suggerire un ruolo, civile e figurativo, che l’architettura potrebbe avere per affrontare
la profonda metamorfosi che sta
coinvolgendo tutti. In particolare il mondo occidentale.
Queste sono solo alcune delle molteplici chiavi
interpretative della tredicesima edizione della Mostra Internazionale d’Architettura della Biennale di Venezia, curata dall’architetto
inglese David Chipperfield, in programma dal 29 agosto al 25 novembre. Common Ground, ovvero terreno comune.
“Con il tema di quest’anno, Common
Ground, si torna a parlare di architettura” spiega Paolo Baratta, presidente
della Biennale di Venezia: per aiutare gli architetti a uscire dalla crisi
d’identità che stanno vivendo, e nello stesso tempo offrire al pubblico la
possibilità di guardare dentro l’architettura, rendersela familiare e scoprire
che ad essa si può chiedere qualcosa, che il diverso è possibile, che non
siamo condannati alla mediocrità. David
Chipperfield spiega la scelta di questo tema come un tentativo di
“stimolare i colleghi a reagire alle prevalenti tendenze professionali e
culturali del nostro tempo che tanto risalto danno alle azioni individuali e
isolate. Ho voluto incoraggiarli a dimostrare, invece, l’importanza
dell’influenza e della continuità dell’impegno culturale, a illustrare idee
comuni e condivise le quali costituiscono la base di una cultura architettonica.”
La Biennale, come esposizione, come manifestazione artistica, ha una grande responsabilità.
Il suo ruolo diventa cruciale soprattutto nei momenti di crisi e di tensione.
Sociale, economica e culturale. È un indicatore dello Stato dell’Arte. Dovrebbe
spiazzare e sedurre, provocare visioni e trasportarci in paesaggi sconosciuti, inesplorati,
semplicemente nuovi, della mente e dell’immaginazione e spronarci a elaborare
idee da percorrere, concrete e propositive, in risposta ai problemi che la “contemporaneità”
ci obbliga ad affrontare. La realtà ci costringe a costatare che risulta sempre
piú difficile e delicato non solo offrire possibili soluzioni ma suggerire e proporre
ipotesi strategiche realmente originali, forti e convincenti. È un periodo di crisi evidente, non solo del mondo
dell’architettura ma del pensiero stesso
sull’architettura. È proprio questo stato di crisi che occupa in maniera
drammatica le coscienze e le menti, la crisi in cui oggi affonda la società e
quindi l’architettura, che ci spinge a ridiscutere
e ri-dimensionare il ruolo dell’architetto, in particolare a ridefinirne i
contorni sociali, e a rimarcarne l’ormai definitiva discesa dal piedistallo
dopo anni di protagonismi e spettacolarizzazioni spesso effimere.
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Herzog e de Meuron |
La scelta del curatore della mostra David
Chipperfield di intitolare la 13°
edizione della Biennale d’Architettura “Common Ground” appare proprio come la volontà
di aprire un dialogo razionale su questi problemi. Common Ground, radici
comuni, storia, tradizioni, temi che stanno particolarmente a cuore all’architetto
inglese, sono il filo rosso che attraversa tutto il percorso della mostra, dai
Giardini all’Arsenale, insieme all’idea di una regia aperta, controllata e di qualità.
A cominciare dalla scelta dei materiali
per gli allestimenti, che risultano ben studiati, semplici ed equilibrati, come
mirato appare anche l’uso delle tecnologie (per la prima volta da quest’anno l’intero
catalogo della mostra sarà sfogliabile in versione digitale, con informazioni
sulle opere e sugli autori). L’attenzione si concentra non tanto sui caratteri generici e
complessivi delle città, ma sul corpo
dell’architettura, sulla sua scala, sulle relazioni che si instaurano con le
persone che ne usufruiscono. Un processo cominciato con la precedente edizione
curata dalla giapponese Kazuyo Sejima, People meet in architecture, e prolungato con efficacia dall’edizione in corso. Al
contrario della Biennale del 2010, molto poetica e a tratti visionaria, questa
risulta un’edizione piú concentrata sulla realtà, in particolare sui mali
storici, culturali, piú spesso riscontrabili nel vecchio continente. Casi di abbandono
del patrimonio edilizio, di cattive gestioni e di anarchie, di pianificazioni
urbanistiche disordinate e disorganizzate come quelle documentate nel film Freeland di MVRDV. Concretezza è la parola d’ordine. L’esigenza di ripartire da
quello che si ha. Fare bene i conti con quello che c’è. I 67 architetti
invitati sembrano tutti aver colto a pieno l’invito e interiorizzato al meglio
le intenzioni di Chipperfield. Da Zaha
Hadid a Grafton Architects, da Fulvio Irace a Eduardo Souto de Moura, da
Toshiko Mori a Norman Foster.
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Peter Zumthor |
Emblematica l’installazione Spain, mon amour di Luis Fernández-Galiano: all’indomani dell’esplosione
della bolla immobiliare la Spagna cerca di interrogarsi sul complicato futuro dei
professionisti spagnoli. L’impronta della crisi è visibile, crisi non solo
economica ma politica, come emerge dallo studio esposto su trittici dall’aspetto
sacrale, dedicato alla progettazione delle New Towns di Crimson Architectural Historians, in cui è evidente la mancanza di
ideali di comunità, emancipazione e progresso alla base dell’idea progettuale.
Emergenze sociali come l’abusivismo in Italia raccontato da Alison Crawshaw nel Padiglione Centrale,
mediante un’istallazione sulla facciata, “il grande balcone”, sulla quale viene
proiettato un video chiamato “volo sulle toponimie”. Crisi di pensiero,
testimoniata dalle riviste specializzate scomparse schierate come un monito da Steve Parnell sempre al Padiglione Centrale.
OMA (Rem Koolhaas, Ellen van Loon) espone all’Arsenale le opere pubbliche di diverse municipalità, in
particolare inglesi e olandesi degli anni Settanta, che si sono distinte nel
tempo come esempi di spazi urbani intelligenti e di alta qualità. 13178
Moran Street si riunisce e si organizza a Detroit in seguito alla crisi che
ha sconvolto la città americana, per comprare una casa vuota a un’asta pubblica
e ridare nuova vita all’immobile come segno di rinascita e speranza. Alejandro Aravena, SANAA, Elke Krasny
sperimentano forme di progettazione partecipata e condivisa con la cittadinanza
per restituire forma e vita a villaggi e quartieri disabitati o, come nel caso
del giappone, a Sendai, letteralmente spazzati via dallo tzunami. La
partecipazione sembra proprio essere il leit motiv dell’intera mostra. Sottolineato
dal Leone d’oro andato ai
venezuelani Urban–Think Thank e all’installazione Gran
Horizonte: un bar-ristorante con cibo tradizionale sudamericano
realizzato all’interno dell’Arsenale come luogo di aggregazione sociale. Gli
architetti e gli abitanti di Caracas sono riusciti a creare una nuova comunità
partendo da un edificio abbandonato. L’ispirazione è l’architettura partecipata, il coinvolgimento degli abitanti come
parte attiva del processo di occupazione o appropriazione dello spazio, che
suggerisce tutta la forza propositiva e la determinazione delle associazioni
informali.
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Norman Foster |
David Chipperfield, in linea con la propria formazione culturale, non
trascura la componente linguistica dell’architettura, la forma come espressione,
l’esercizio dialettico. Troviamo cosí il risultato di una forte tradizione
accademica in Hans Kollhoff, di un’esigenza di contatto tra Storia e Linguaggio
formale dell’architettura in Caruso St. John, oppure i segni di una cultura materiale come la casa costruita
in scala 1:1 dall’indiana Anupama Kundoo. Lungo
queste direttrici si modella il percorso degli architetti premiati con il Leone d’argento, andato alle giovani
irlandesi Grafton per l’interessante presentazione di un nuovo campus
universitario a Lima, sulla base di un’attenta rilettura delle architetture del
brasiliano Paulo Mendes da Rocha, e con la menzione
speciale della giuria assegnata a Cino Zucchi. Autore di un’installazione basata
sulla differenza all’interno dell’uguaglianza, sulla ricchezza della
similitudine. È argomento di riflessione invece la natura del padiglione
italiano, forse indebolito dal fatto di non aver presentato proposte
architettoniche originali, complice anche il ritardo della nomina del curatore. “L’Italia rimane la patria spirituale
dell’architettura”, riflette Chipperfield. “È qui che si può comprendere
pienamente l’importanza dell’edificio non come spettacolo individuale, bensí
come manifestazione di valori collettivi e scenario della vita quotidiana. Tali presupposti mi hanno portato
a concentrarmi sull’apparente mancanza di intesa tra la professione e la
società.”
“Non è un
anno come gli altri, il common ground deve tradursi in un progetto concreto e
visionario, in cui cultura ed economia scrivano un nuovo patto.” Questa la
“doverosa premessa” di Luca Zevi,
curatore del Padiglione Italia.
Il progetto
curatoriale del Padiglione Italia si basa sulla scommessa della possibile
riscrittura del “patto”, luogo fertile e condiviso, tra le ragioni dell’architettura,
del territorio, dell’ambiente e dello sviluppo economico. Un common ground tra
imprenditoria e architettura, tassello imprescindibile per una futura ripresa. Il
racconto descrive le “quattro stagioni” dell’architettura del Made in Italy (I Adriano Olivetti,
nostalgia di futuro; II L’assalto al territorio; III Architetture del Made in
Italy; IV reMade in Italy) lungo un percorso accidentato e
fecondo, votato alla ricerca di un rapporto virtuoso tra architettura, crescita
e innovazione. In particolare viene raccontata l’esperienza di uno dei piú
grandi e illuminati industriali del secolo scorso, Adriano Olivetti. Un percorso inteso come
paradigma di un modello di sviluppo in cui politica industriale, politiche
sociali e promozione culturale si integrano nella proposta di una strada
innovativa nella progettazione delle trasformazioni del territorio. La sua
visione è stata definita “utopistica” ma appare, viceversa, una strategia
vincente, declinata al futuro, animata da esigenze urgenti e attuali.
Giusta sintesi concettuale e simbolica l’acclamata
assegnazione da parte del Cda della Biennale, proprio il giorno d’inaugurazione
della mostra, del Leone d’Oro alla carriera all’architetto portoghese Alvaro Siza, che merita di essere paragonato a uno
dei piú grandi poeti del secolo scorso, Fernando Pessoa, con il quale condivide non solo le origini, ma anche un’idea della visione: “perché ho la dimensione
di ciò che vedo e non la dimensione della mia altezza”, si legge nel Libro dell’inquietudine.
Nicolò Troianiello ha
studiato architettura all’Università
degli Studi Roma Tre, alla Fay Jones
School of Architecture della University of Arkansas, e alla Cambridge
School of
Architecture della University of Waterloo. Fa parte di un gruppo di
progettazione formato da giovani architetti e lavora come assistente e
tutor
per corsi e workshop internazionali di progettazione architettonica
all’Università
degli Studi Roma Tre. Nel 2009 ha vinto il concorso per la realizzazione
di un monumento a ricordo degli internati e delle vittime del campo di
concentramento “Le Fraschette ad Alatri”.
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