giovedì 27 dicembre 2012

Mitologie urbane. Il mito dell’orientamento


di Tommaso Matano
 
Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.



 

“Non sapersi orientare in una città non significa molto.
Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento, le ore del giorno. Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte assorbenti dei miei quaderni.”
Walter Benjamin, Tiergarten, in Infanzia berlinese


Orientarsi significa volgersi verso oriente, verso il luogo in cui la luce sorge e dona allo spazio una sua intelligibilità. Ma orientarsi significa anche delimitare, contornare il dove in cui ci muoviamo. La particolarità dell’orientamento è che non si configura come un progetto, come l’ipotesi di un percorso. L’orientamento è una mappa dei luoghi che costruiamo muovendoci all’interno dei luoghi stessi, un processo in divenire, che si conquista sul campo.
L’orientamento condivide con l’orizzonte un originario rimando all’idea del confine, dell’estremità.

Orientarsi vuol dire, in qualche misura, sentirsi a proprio agio con gli orizzonti, riconoscerli.

Una città fornisce dei limiti molto precisi, artificiali, costruiti ad arte per renderla abitabile. Una città è il luogo dell’orientamento per eccellenza: lo è per il fatto di avere una geometria, un centro, una periferia, una geografia di collegamenti, una tassonomia. Perdersi in una città sembrerebbe un’impresa ardua, contraria alle regole.

Eppure avviene. Ci si smarrisce perfino nella propria città, nei punti ciechi che non abbiamo mai frequentato, sul crinale di nuovi quartieri, nell’inaspettato risolversi della topografia cittadina in uno schema mai visto. Ci si smarrisce in modo sorprendente, o talvolta in modo scontato.
Capita anche di perdersi andando incontro allo smarrimento consapevolmente.

Questa trasgressione alle leggi della città, però, non ci mette alla porta, non ci esilia dal tessuto urbano.
Certe volte, anzi, ci consente di penetrare nei luoghi con una forza del tutto nuova.
Il valore euristico dello smarrimento potrebbe essere attestato ammettendo che per il viaggio valga, come per tutte le ricerche, il principio della serendipità (quel fenomeno che Julius Comroe Jr. descrive come “cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino”).
Perdersi può consentire di trovare piú di quello che stavamo cercando.
Questo romantico piacere dello smarrimento, questa gioia dell’infrazione, deve oggi fare i conti con la potenza della tecnologia.

Ci si può ancora perdere, in una città intelligente?

Convochiamo a titolo d’esempio il navigatore satellitare. Uniamo il navigatore satellitare allo smartphone. Ed ecco l’inviolabile interdetto: Non ci si smarrisce.

Vivificata, la tecnologia ci parla scandendo nell’orecchio la strada da percorrere. Lo strumento ci indica la via. Lo fa spontaneamente, quasi anticipando la nostra domanda. Il navigatore ci individua e ci dice cosa fare. Dove andare. Non serve chiedere informazioni, non serve leggere il nome delle strade, non serve sapersi collocare nell’educata miniatura di mondo che è la mappa.
Il navigatore, sempre a portata di mano grazie alla sua integrazione con lo strumento che ci rende comunicativi e reperibili, cioè aperti sul mondo 24 ore su 24, veglia sui nostri movimenti.
Dissipando ogni indecisione, ogni tentativo, ogni scorciatoia, ogni imperfetta mossa umana di orientamento, la macchina non ci insegna lo spazio. Ce lo indica.
Invitati dall’incomparabile comodità delle istruzioni a seguire la strada che suggerisce il navigatore, noi percorriamo pezzi di strada che rientrano in un ordine che non ci riguarda, che ci rimarrà necessariamente estraneo.
Strumento con cui la città fa rispettare le sue regole, il navigatore non ha nulla a che fare con la navigazione. Non è una bussola, né una cartina, non è una costellazione.
Esso è piuttosto un legislatore, un’autorità.
Rispondendo alla paura che la fragilità dello smarrimento porta con sé, il navigatore ci invita al percorso escatologico e sommesso di un itinerario prestabilito. Come un Dio che guarda la città da altezze orbitali, il navigatore ci vieta l’errore, ricalcolando di continuo il percorso, riadattandolo, scaltro, plastico, sensibile alla nostra fallibilità.
Il navigatore, piú che aiutarci a trovare la strada, la crea. Severo, distante, perentorio ci mostra la città nella sua veste piú inquietante: come uno scenario da attraversare, da lasciarsi alle spalle. E soprattutto, il navigatore, cosí come l’accessibilità a internet in ogni momento, ci illude di liberarci della piú umana delle caratteristiche: il dubbio.

Lo smartphone, questo spietato elogio della certezza, con il suo corredo oracolare di risposte a tutte le nostre domande, ci annuncia che il tempo dello smarrimento è finito.

“Di chi era quel film? Dai quel film con quell’attore…”. “Aspé che lo vedo sull’iPhone. Era…”

Tale schiacciante vittoria dell’enciclopedia sull’arte della discussione (e della memoria) ha il suo corrispettivo nel viaggio. Con il navigatore noi non impariamo la strada. La eseguiamo.

La consapevolezza impeccabile della via da percorrere, questa conoscenza superiore e inumana, consegnata alla perfezione dell’intelligenza artificiale, può rivelarsi presto illusoria.
Perché tali strumenti, piú che orientarci, ci deresponsabilizzano, sgravandoci dal peso della ricerca.

Può capitare che il navigatore ci indichi una via impercorribile, chiusa per lavori.

Lí, di fronte al silenzio della sua scienza, ci riconcilieremo con la dignità dell’esplorazione.

mercoledì 19 dicembre 2012

L’etichetta delle etichette

“Tag” è l’ottava voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau




“Il dualismo di schema e contenuto, di sistema organizzante e qualcosa che aspetta di essere organizzato, non può essere reso intelligibile e giustificabile. È esso stesso un dogma dell’empirismo, il terzo dogma.” 
Donald Davidson
  
Tag, questa parola ha la forma di un’etichetta. Qui precipita, nell’uso, l’illusione ottica che segno e significato si tengano per qualche segreta ragione, in una onomatopea che sigla, traccia, definisce, contrassegna. Taggare –verbo che entra nel Dizionario Italiano sia per ”marcare gli elementi di un file” sia nel gergo dei writers per “firmare un graffito con la propria sigla”, ha riportato tutti gli scriventi al compito di categorizzare pensieri, persone, concetti, oggetti fisici, oggetti sociali, scritture, luoghi. Il tag ha il benefico effetto di imporre una generalizzazione, simil-aristotelica, sugli elementi del reale, là dove siamo ormai massimamente analitici e incapaci di astrazioni generalizzanti. Ma facciamo un passo indietro. Nell’inglese del Quattrocento era un piccolo pezzo di stoffa, ornamento di vestiario. Nei social network è il modo di attribuire nomi a foto o testi e, superata la stagione “romantica” dei blog, del web “semantico”, il tag rivive in modo eminente adesso negli hashtag, le etichette-cancelletto che interpungono, taggandola, l’intera “conversazione” globale, il flusso della rete, la rete stessa. L’appropriatezza, la cogenza nell’attribuzione del corretto hashtag al contenuto informativo pubblicato (testo, foto, persona che sia) è una forma di nuova dittatura del pensiero, la “dittatura dell’etichettatura”, o l’etichetta dell’etichette. Ogni uso “improprio” dei tag viene, infatti, sconsigliato, censurato. Il predominio della “rilevanza” governa ogni scelta di marcatura. Cosí, la “sensatezza” degli hashtag depaupera ogni scarto creativo, ogni uso potenziale, o controintuitivo. L’uso “politico” del googlebombing, ad esempio, potrebbe essere riproposto utilmente a livello di etichettature odierne. Nell’insondabile spazio tra saperi inconsapevoli e comprensione del reale, quale “schema concettuale” stiamo applicando nel momento in cui scegliamo di categorizzare con un “tag” (o un hashtag) un contenuto?


(Nel paratesto di questo lemma, qui sotto, troverete alcuni tag, scelti dal curatore della pubblicazione online del mio testo. Se sarò stato convincente, troverete tra quelli anche un tag incongruo, superfluo, deviante, semanticamente irrilevante. Se, al contrario, non lo troverete, la dittatura funziona).

martedì 18 dicembre 2012

Il rovescio dell’ignoranza


Nel suo ultimo libro Fabrizio Tonello descrive una serie coerente di processi sociali che convergono verso la definizione della contemporaneità come età dell’ignoranza, polemicamente contrapposta alla percezione diffusa di vivere dentro una “società dell’informazione”, o addirittura “della conoscenza”. La cartografia di Tonello è utile perché segna alcuni punti di crisi che nascondono un rovescio di potenzialità da elaborare. Per immaginare strategie possibili di ripopolamento del deserto culturale che stiamo attraversando: tenendo conto di tutte le trappole e di tutti i rischi segnalati da Tonello, ed evitando di cantare scioccamente le “magnifiche sorti e progressive” della civiltà. “I nostri nonni contadini e operai”, scrive Tonello nell’ultimo paragrafo del suo libro, “potevano essere analfabeti, ma partecipavano di una conoscenza sociale diffusa nel paese o nella fabbrica, un senso comune che permetteva loro di capire in che mondo viviamo con sicurezza. Oggi questo patrimonio di saperi si è in gran parte disperso, ed è molto difficile da recuperare perché le sue basi materiali si sono dissolte.”
In una piega di questa visione crepuscolare si intravede la possibilità di una alfabetizzazione sociale che avviene lontano dall’alfabetizzazione istituzionale. Tonello parla di un’umanità analfabeta, ma consapevole. E costringe a formulare l’ipotesi che l’analfabetismo collettivo che minaccia il nostro patrimonio culturale e la nostra convivenza civile contenga i germi di un “postalfabetismo” da costruire proprio nei luoghi e attraverso gli strumenti che attualmente sembrano gli incubatori dell’ignoranza. Quella che si presenta con le insegne dell’ignoranza imperante potrebbe essere in realtà una ristrutturazione sostanziale dei luoghi di produzione e scambio dei saperi, un processo che nasconde cambiamenti profondi delle configurazioni sociali, collegati alle trasformazioni tecnologiche.

Il “pubblico paraprivato” generato dalle reti sociali, che trasforma non piú il privato in politico ma il politico in personale, è luogo di produzione di “infrasaperi”, autonomi o in conflitto rispetto al sapere istituzionale, che possono diventare il fulcro sul quale poggiare la leva della nuova alfabetizzazione. Rendendo produttivo anche l’aspetto emozionale e istintivo che Tonello indica come uno dei veicoli dell’ignoranza: se riconosicuta come declinazione del desiderio, l’emotività “calda” dei nuovi media può essere utilizzata come strumento di coinvolgimento. Anche il rapporto tra docente e discente prende forma spesso a partire da un legame emotivo: già la teoria platonica dell’educazione si fonda sul desiderio. Nella condivisione della parola orale si innesca un riecheggiare della parola del maestro nell’allievo che non attiva meccanismi esclusivamente razionali.

Le fratture prodotte dall’ignoranza allora possono liberare una costruzione dei significati diversa e sconosciuta. Dall’approfondimento della frattura prodotta dalla de-socializzazione delle pratiche culturali muovono le strategie di ricreazione e ricomposizione delle comunità. E questo è valido anche e forse soprattutto sul piano politico. Le comunità locali, i movimenti, le aggregazoni politiche diffuse e provvisorie stanno disarticolando lo spazio pubblico, e aumentando lo scollamento rispetto alle istituzioni politiche tradizionali, che nel conflitto con queste nuove realtà mostrano tutta la loro sofferenza. Anche la ricomposizione del politico passa attraverso la valorizzazione degli strumenti offerti dalle reti, intese non soltanto come elemento tecnologico ma come paradigma sociale.

Le nuove piattaforme di informazione cui Tonello guarda senza troppa simpatia rappresentano le infrastrutture per l’elaborazione dei nuovi saperi. Sono flussi dei quali non è piú possibile fare a meno nonostante la loro mole sovrasti le capacità individuali di elaborazione. Niente è superfluo perché tutto può attivare un infrasapere. Il fatto che le grandi corporation cerchino di assicurarsi i “servizi” dei pirati che trasformano l’orizzonte della comunicazione lontano dalle centrali dell’informazione è il sintomo dell’efficacia delle loro pratiche di destrutturazione dei poteri dominanti. L’emergenza di attività “autonome” del resto è destinata a destabilizzare e poi a ristrutturare l’organizzazione del lavoro. Lo sfruttamento diffuso della creatività sociale, che adesso viene giustamente denunciato come una pratica parassitaria, dovrà assestarsi e trovare un suo modello produttivo.

Il rovescio dell’ignoranza è una trasformazione antropologica che insieme ai sistemi di apprendimento sta modificando gli schemi cognitivi degli individui. La mutazione è stata analizzata a livelli diversi, su una scala che va dalla fenomenologia dei “barbari” (Baricco, ma anche, a un livello di maggiore complessità, il sociologo Alberto Abruzzese) fino alle scoperte sulla plasticità neurale che provengono dalle neuroscienze. Approcci diversi che concordano nell’affermare la necessità di comprendere le strategie dei barbari che, utilizando la metafora di Baricco, attraversano e saccheggiano il nostro paesaggio culturale. I barbari acquistano in velocità e vastità di attraversamento delle superfici quello che perdono in profondità. E dove sembra che stiano distruggendo e desertificando, in realtà stanno abitando in modo del tutto diverso. Quando parlano, sembra che stiano storpiando la nostra lingua: invece ne stanno sillabando una del tutto nuova, che dobbiamo ancora grammaticalizzare. Alcune delle competenze che hanno caratterizzato l’affermarsi della nostra civiltà saranno irrimediabilmente perdute, lasciando posto ad altre competenze che stanno avanzando. A partire dalle quali dovrà costruirsi la nuova alfabetizzazione.

L’alfabetizzazione che avveniva in fabbrica e in paese, evocata da Tonello in chiusura del suo libro, era proprio un sapere conflittuale rispetto ai saperi organizzati e istituzionalizzati. Seguire i processi di disgregazione del sapere tradizionale serve proprio a capire in che modo ricomporre le comunità, riaggregare nuovi saperi e nuove creatività sociali. Approfondire la crisi fino a spalancarla, senza invocare restaurazioni e nostalgie, è l’unica possibilità di connettere il presente alla storia, e di trasferire nel nuovo contesto, riattivandone il significato, il patrimonio culturale che sembra minacciato da ogni parte.

mercoledì 12 dicembre 2012

Homo applicans

“App” è la settima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.


 
App 
Se una parola è lunga, la si abbrevia. Se nasce corta, è meglio. Se è monosillabica, meglio ancora. L’innovazione spesso è madre di brevi monosillabi inglesi, radici di parole dall’origine remota, ridisegnate per i nuovi device del sapere e del saper fare. “App” sta per “applications”, quindi “applicazione”, dal latino “applicatio”. C’è un senso del termine latino che vale per “legame”, “appoggio a un patrono in qualità di cliente”. E cosí siamo, di nuovo, clienti, ma ora di store virtuali e impalpabili. Un tempo, alle scuole Medie, c’era l’ora di “Applicazioni Tecniche”. Forse è rimasta ancora la dicitura, ma in quell’ora è probabile che si disegnino apps (perché spesso troverete usata la parola – anche in italiano – al plurale inglese, con la “s”) per cellulari anziché riquadrare a matita dei fogli bianchi. Come dire, dai fogli Pigna ai “fogli di stile”. Se le app sono piccoli software da applicare, scaricandoli da uno store, al proprio smartphone, o ai tablet, e se gli smartphone e i tablet sono nuove protesi cognitive, potremmo immaginare un mondo in cui, a breve, le app si installino direttamente nei nostri corpi. Sotto questa luce tutto il campo biomedicale è un’applicazione di app al corpo umano. La fantascienza cinematografica si è esercitata piú volte sull’idea del corpo “bionico”, come di un apparato biologicamente manchevole, aperto e “aggiornabile” al quale aggiungere “pezzi”: ad esempio memoria (Johnny Mnemonic, 1995, da un racconto di William Gibson), oppure inquietanti interfacce sul tipo di “bio-porte” (eXistenZ, David Cronenberg 1999) fino ai cervelli direttamente linkati con la Rete (H+, webseries di Cosimo De Tommaso, 2012). Non farei rientrare, invece, nella natura “protesica” delle app il caso del giovane tatuatore americano (tale Dave Hurban, 21enne del New Jersey) che si è impiantato quattro calamite sottocute per avere sempre con sé al polso il proprio mini iPod. Né le mollegambe di carbonio dell’atleta Oscar Pistorius. Il concetto di app è, piuttosto, aereo e fortemente intrecciato sia a quello di cloud, perché demanda la completa funzionalità di un apparecchio alla personalizzazione con risorse scaricabili dal web, sia a quello di open, sul versante della progettazione delle app stesse. Interi siti web, compresi i social network, diventano app negli, e per gli, smartphone. Anzi, le app piú usate sono quelle che meno lo sembrano (YouTube, gli store, Google e Gmail…) e che rendono tanto appetibili gli smartphone stessi, con un effetto di trascinamento per il quale la funzione traina l’oggetto che la consente. Un po’ come avveniva anni fa nel campo dei videogiochi da consolle (ora disseminate in milioni di app). Per questo, chi volesse ripensare oggi il concetto di “homo ludens” non potrebbe che passare attraverso uno studio delle app.

sabato 8 dicembre 2012

Mitologie urbane. Il mito delle narrazioni

Tommaso Matano 

Mitologie urbane è un osservatorio, prodotto in collaborazione con Il Bureau, sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città.



Il mito è un linguaggio
Roland Barthes, Miti d’oggi

Nel luogo e nel tempo di Twitter, di Instagram e del microblogging, un discorso sulle narrazioni, oltre a soffrire del piú classico vizio di metodo (è una narrazione sulle narrazioni), appare soprattutto obsoleto.
Se è vero che ormai le notizie viaggiano tramite i leaks, cioè sgorgano dalla fonte direttamente sulle tavole dei lettori, senza il processo di imbottigliamento ed elaborazione dei mezzi d’informazione, allora discutere di come costruiamo il modo in cui raccontiamo il mondo può sembrare roba sorpassata. Il mondo ce lo raccontiamo cosí com’è, in ottemperanza a una visione realista delle cose.

La tecnologia ci concilia con i dati: internet valica la barriera della censura, scarnifica l’ideologico, ci mette in contatto orizzontale con il resto del mondo, ci restituisce l’appercezione immediata degli eventi.
Perché parlare di mitopoiesi nel tempo in cui il linguaggio pare avere presa integrale e sicura sulla realtà?

Come avrete capito dalla banalità di questo espediente retorico, la nostra autoconfutazione è fittizia.
Non solo, nel vivere quotidiano, abitiamo il mito. È il mito stesso che ci abita.
Le narrazioni solcano trasversalmente il mondo e la società che frequentiamo.
Il modo in cui elaboriamo i fenomeni collettivi che ci riguardano in quanto individui e in quanto cittadini è spesso un modo narrativo: i concetti sono in realtà storie. E il bello delle storie è che non vengono chiamate a dar conto della loro verità o falsità. La coerenza della narrazione ha una dignità tutta particolare, poiché non risponde alla logica ordinaria, ma organizza il senso a un livello che fa appello all’intelligenza pratica, al saper fare
Di una storia possiamo servirci come se fosse uno strumento. Essa funziona quando fila, non quando dice la verità.
Ma cosa vuol dire questo, nella vita di tutti i giorni?
Vuol dire che mentre la tecnologia ci fornisce modalità sempre piú crude di imporci alla natura, predicando la ricchezza di un linguaggio-oggetto, nell’idea che aver presa sulla realtà sia dire la realtà e non parlare della realtà, i giornali, il bar, i social networks e tutti gli altri luoghi (in una parola le città) che abbiamo per rielaborare quel linguaggio-oggetto finiscono per rendere quell’elaborazione una narrazione.
Vuol dire, in altre parole, che a volte, quando parliamo del mondo, stiamo raccontando storie sul mondo.
Nel rischio del narrativo vorremmo addentrarci, per tentare di osservare quel meccanismo con cui il nostro linguaggio – verbale, fotografico, multimediale – piú che parlare la o della realtà, la rifà.
Come racconta Nelson Goodman, “a chi si rammaricava che il suo ritratto di Gertrude Stein non le fosse somigliante, si dice che Picasso abbia risposto: Non importa, lo sarà.
Ci muoviamo in una realtà che, già per il semplice fatto di essere quella in cui siamo, è aumentata, incrementata, dal valore simbolico del nostro parlarne.
Il compito che ci proporremo, allora, nel tracciare una specie di affresco dei miti della società di oggi, sarà problematizzare questi fenomeni in cui ci troviamo continuamente immersi. Non saremo forse in grado di comprendere le mitologie urbane, ma proveremo a identificarle in quanto mitologie. 
La convinzione, implicita, che orienta i nostri intenti, è che nell’intelligenza della città, cioè del luogo in cui abitiamo, debba rientrare anche questo spazio ri-creativo. Uno spazio in cui la significazione che il mondo assume possa farsi oggetto di riflessione. 
Non si tratterà di dare nomi alle cose, ma di denunciare le cose che ancora non hanno un nome.
È una maniera per mettere ordine?
Senz’altro è un mezzo per sbirciare nel modo in cui viviamo nelle città, in cui viviamo le città, in cui concepiamo le città, perfino nel modo in cui stiamo nella dimensione parallela della “Rete” come se fosse una città.
E questo come se è già una narrazione.
Non sappiamo quanto tutto questo sia utile. 
Speriamo si riveli almeno urbano.


mercoledì 5 dicembre 2012

I gingilli di Stiv


“i” è la sesta voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.


     

    I, porpora, sangue sputato, riso di labbra belle
nella collera o nelle ebbrezze penitenti
Arthur Rimbaud, Vocali

i
Le vocali colorate di Rimbaud non spiegheranno, forse, l’origine segreta e la fortuna pervasiva che la “i” incontra nell’accompagnare i nomi di tutti i prodotti piú innovativi che “una nota azienda di Cupertino” ha ideato e prodotto negli ultimi anni (iMac, iPod, iPhone, iPad, iTunes, iOS, iLife, iBooks, iCloud…). Fortunatamente nella guerra dei brevetti non è caduta pure questa vocale, altrimenti i giudici (Coreani? Americani?) avrebbero avuto qualche difficoltà a risalire all’origine prima, grafica e fonetica, del simbolo “i” (pare scarseggino, infatti, testimoni fenici viventi). Cosa significa oggi quella “i”? Interactive, in senso stretto e corrente, sembrerebbe una risposta possibile. La polisemia evocata dalla “i” (Internet, Innovazione, Interattività, Io…) segnò la fortuna della vocale almeno dal 1998 in poi, anno della produzione del primo iMac, disegnato dal giovane Sir Jonathan Ive (Chingford, 1967) responsabile del design di altri prodotti successivi e analogamente vocalizzati dall’iniziale del suo cognome. In principio, verosimilmente, la “I” stava per “Internet”, suggerendo la facilità di connessione alla rete di quel televisore futuribile di plastica colorata che era l’iMac. Per un breve periodo una “i” triplicata divenne programma politico di italica riforma nazionale (Internet, Inglese, Impresa) il cui insuccesso è ancora difficilmente quantificabile in termini di PIL. Qualunque cosa voglia dire oggi la “i” che compone i nomi, giustamente protetti commercialmente, di quei meravigliosi gingilli elettronici mantiene un fascino che risalta grazie al suo minuscolo, rispetto alla maiuscola della particella che la segue: nessuno avrebbe comprato un IPOD  mentre  iPod  fu, immediatamente, irresistibile.

i-Thinking
Storiella monovocalica sull’innovazione in salsa Apple

I gingilli di Stiv, rifiniti, lisci, i primi tipi di invincibili missilini di bit, li vidi. In inizi irrisi, di chip in chip, i gingillini, finiti in Inc., ridipinti in infiniti dipinti di Sir, li rimiri: in filmini fittizi (clip) in tipici link, in tintinnii timbrici di silici, in scrigni piccini, in mini dischi rigidi, in sibili di Siri, in incipit sibillini: “I think”. Vissi gli IBM insipidirsi e l’imprinting di Bill intirizzirsi in striminziti sinistri fili di Win 3.1.
Hi hi hi, gli indicibili impicci di diritti ricchissimi, i litigi fitti! (simili simili, indivisibili, vicini i filippini: il “pinch” ). L’i-Thinking, Stiv, l’instilli fin in piccini, i citti, li titilli di brividi libidici in siti mistici, in scritti di Wiki di divini primitivi, in ministri di MIT, li sigilli in birilli cilindrici: dividi i criticismi, li mitighi. I gingilli di Stiv, rifiniti, lisci, limpidissimi, sí, li vidi.

lunedì 3 dicembre 2012

L’Europa delle città: Berlino

Giacomo Antico

Questo testo fa parte di un’inchiesta collettiva su L’Europa delle città, prodotta in collaborazione con Il Bureau.


La prima lettera della mia vita mi raggiunge l’ottavo giorno della mia giovane esperienza berlinese all’indirizzo di Oranienstrasse 33, edificio frontale, piano terzo, porta a destra. È una busta di dimensioni considerevoli, stipata di incartamenti. Maledicendo la mia scarsa manualità, faccio a pezzi l’involucro e ne esamino il contenuto: una smorfia di stupore spariglia la mia faccia. Tiro le tende della stanza e cerco rifugio nel suo anfratto piú scuro. La mia mano stringe il codice fiscale tedesco appena assegnatomi, senza capire la motivazione di tale inquadramento istituzionale.

L’impatto con una burocrazia celere ed efficiente – specie se la si confonde con l’ossessione tutta tedesca per l’irreggimentazione della realtà in categorie, un abito che si riverbera persino nell’universo linguistico, in cui il neologismo, lo strappo alla regola, è anch’esso regola – può suscitare nell’immediato una sensazione di mortificazione della libertà individuale. Tuttavia e ben presto, l’impressione di soffocamento si tramuta in ammirazione quando con uno sguardo piú attento si riconoscono i benefici di ordine socio-politico ed economico di una smart governance cittadina.

Infatti, è la povera, scalcinata Berlino che l’imprenditorialità hi-tech europea ha scelto come sua mecca, attirando giovani creativi e concentrando il piú elevato numero di start-up del Vecchio Continente. Una neonata comunità virtuale che già vanta successi di fama mondiale: basti citare SoundCloud, comunemente definito “Youtube della musica”, un sito con piú di dieci milioni di iscritti, o Upcload, che tramite la webcam misura in un attimo la taglia delle persone, rimuovendo cosí il principale ostacolo allo shopping di abbigliamento online. Le ragioni di tale successo vanno trovate nella sinergia fra istituti di ricerca, università, enti pubblici funzionanti e digitalizzati, e in una rete di wi-fi gratuito sempre piú diffusa. Inoltre, il basso costo della vita agevola la permanenza sul mercato di imprese acerbe, che altrove, seppur con idee valide, dovrebbero fare i conti con tempi di gestazione significativamente piú brevi. E se nel futuro prossimo questa ondata di visionari della rete promette di propiziare ingenti investimenti stranieri, per l’intanto costituisce una fulgida prova di quanta innovazione sia in grado di sprigionare l’azione combinata dei parametri di intelligenza di una città.

Un’intelligenza i cui segni sono manifesti nello spaccato urbano, come l’ispirato accorgimento di trasformare la denutrita figura standard del semaforo per l’attraversamento pedonale nell’Ampelmännchen, alla lettera l’omino del semaforo. Un florido omino in grado di strappare un sorriso anche al piú bigio degli impiegati in ritardo. Ormai un oggetto di culto cosí popolare da essere usato nelle scuole per l’educazione alla sicurezza stradale e in grado di alimentare un consistente giro d’affari con l’apposizione della sua effigie su souvenirs di ogni tipo. Non si richiedono nozioni di psicologia del traffico per apprezzare l’influenza positiva di questo simbolo sul viavai quotidiano.

Quando non vuole avvalersi della precisione millimetrica della mobilità pubblica, chi passeggia per Berlino ha l’impressione di percorrere un itinerario nel recente passato europeo, e al contempo proprio le stratificazioni urbane sincopate, l’ordinata discontinuità architettonica risuonano come un inno al cambiamento. Il suono di una città strutturalmente favorita dalla sua fisionomia che è Storia contemporanea, in cui “la tempesta del progresso” spira senza sosta sulle polverose testimonianze d’una perduta età dell’oro. Un aspetto eteroclito che è già divenire.

Un vantaggio non da poco considerando che, mentre nell’area asiatica si possono concepire a tavolino i cosiddetti Green City Projects per nuove e intelligenti città, in Europa preesistenti metropoli debbono interrogare la loro architettura per ottimizzare le infrastrutture disponibili e innestare un’informatica per la città, che ne misuri lo stato di salute da una angolazione olistica,  aiutata da sensori che, nascosti sotto l’asfalto o inseriti nei pali della luce, rendicontano lo stato del traffico, l’inquinamento dell’aria, il livello di rumore, il grado di riempimento dei bidoni dell’immondizia, l’efficienza energetica.

Insomma, come evidenziano le recenti evoluzioni, anche a Berlino il cittadino di domani sarà coinvolto in uno scambio diretto di dati con l’ambiente circostante. Se vuole renderlo proficuo, pur avendo accesso in qualsiasi momento alle informazioni fornite dalla città intelligente, non sarà esentato dal pensare.

Giacomo Antico, presto 22 anni, segue il quarto anno di giurisprudenza a Roma. L’inverno passato ha trascorso a Berlino il semestre piú freddo che si ricordi.

mercoledì 28 novembre 2012

Aerei campi

Wi-Fi è la quinta voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.



Dopo ciò detto, per gli aerei campi
vagando, a parte a parte e l’ombre e i lochi
gli mostrò, l’invaghí, tutto d’amore
de la futura gloria il cor gli accese. 
Virgilio, Eneide, VI

Wi-Fi
 
Contrariamente a quanto l’assonanza sillabica suggerirebbe, il Wi-Fi non ha a che vedere con l’alta fedeltà, né delle connessioni né delle trasmissioni dei dati. Certamente, si dirà, Guglielmo Marconi si occupò di Wi-Fi, là dove impropriamente si faccia discendere la particella “wi” da “wireless”, dall’assenza di fili che le trasmissioni radio portarono con sé (nel luglio 1897 Marconi fonda a Londra la Wireless Telegraph Trading Signal Company, mentre Nikola Tesla radiocomandava già una barca in una dimostrazione dentro al Madison Square Garden). Occorre, invece, tornare indietro fino al Conte di Winchester, Hugh le Despenser (1 marzo 1261 – Bristol, 27 ottobre 1326) per ricavare l’esatta, e potenziale, etimologia del termine. Il Conte fece installare una rete di avamposti sorvegliati da contadini lungo i campi (fields) della sua contea, in modo da avere un contatto con le informazioni territoriali, le previsioni meteo, i pettegolezzi, le notizie in tempo reale. Wi-Fi è, così, la contrazione di WInchester-FIelds come primo sistema informativo di rete a connessione gratuita. A differenza di quel tempo remoto, in campagna ancora non si trova traccia di Wi-Fi, ed è piú facile ottenere pioggia con l’omonima danza indiana che connessione veloce nelle zone rurali della nostra Nazione. Al contrario, oggi le città – metropoli piccole e grandi non sono smart se non offrono ampie zone di Wi-Fi gratuito, punti di accesso al quale attaccarsi per una quotidiana fleboclisi di dati in entrata e in uscita. Come confidando nell’intensità della preghiera rivolta a deità ulteriori, ora si spera nella “potenza del segnale” e, là dove non sia presente un hotspot gratuito, in una connessione “aperta”, soglia di casa lasciata dischiusa, piú o meno volontariamente, da privati, istituzioni, enti, centri commerciali. Wi-Fi è una sigla che, semanticamente, funziona come una collana di perle, perché si porta dietro, per poter funzionare, una serie di concetti luminosi (Access point, Hotspot, Router, WLAN, Switch, AirPort…) senza i quali il presente sarebbe meno “presente” e queste stesse parole, che li rappresentano, in molti casi non sarebbero neppure leggibili nel momento in cui ora, qui, tu le stai leggendo.

martedì 27 novembre 2012

L’Europa delle città: Amburgo

Fabien Kunz-Vitali

Questo testo fa parte di un’inchiesta collettiva su L’Europa delle città, prodotta in collaborazione con Il Bureau.


La città rintanata nel proprio passato (o: perché i poeti sono da preferire ai sovrintendenti all’edilizia).
In uno dei capitoli di Notre-Dame de Paris, notoriamente indigesti per il lettore curioso di come va a finire la storia, ma troppo breve per l’autore che infatti si scusa della sua schematicità, Hugo traccia un quadro storico dello sviluppo urbanistico di Parigi, dalle origini fino ai giorni della Restaurazione. Raccontando una storia di continuo declino, naturalmente. Dove splendeurs e beautés del passato, quello gotico in particolare, si presentano ormai solo in modo fugace, negli interstizi fra l’uno e l’altro edificio nuovo che deturpa l’aspetto generale, un tempo sublime, della città. Pur nel profluvio delle sue pagine enciclopediche, non sfugge la logica assai semplice secondo cui Hugo declina la storia dell’architettura di Parigi, del resto analoga a un suo atteggiamento scisso verso la Storia in generale: il passato era iniquo, ma bello – il progresso è giusto, ma brutto.

Ora, quando Hugo stava lassú, in cima alla sua vecchia cattedrale, a scrutare il vasto spazio di una città che sembrava non appartenergli piú, e che egli vedeva arretrare irrevocabilmente nel futuro, Parigi era ancora di là dall’assumere quell’aspetto e dal divenire quel luogo che oggi ci è familiare e che, piú o meno, ci affascina. Per cui non possiamo non sorridere delle sue profezie, in particolare, di una Parigi votata al progresso e, ipso facto, al regresso a spazio architettonicamente insignificante. A parte la questione del gusto, una realtà urbana recente come, mettiamo, la Défense (chissà quali batterie analogiche Hugo avrebbe mobilitato contro un progetto come questo) – conferma che è precisamente abiurando, con spontanea brutalità, all’idea della conservazione che Parigi oggi è ancora una Città. Vale a dire una meta costante di persone in cerca, non di musei, ma di una vita; un luogo che, come un organismo, è capace di trasformarsi, di reinventarsi, di inglobare il proprio passato e magari anche di reprimerlo (Freud ha paragonato le stratificazioni dell’apparato psichico alle stratificazioni urbane di una città come Roma). Ecco, non bisogna scomodare i futuristi per affermare che la conservazione, quando si fa principio, può andare bene per un posto come Lubecca, ma non vale per una Città.

Le idee che Hugo espresse a proposito dell’architettura parigina sono interessanti perché, fra l’altro, rinviano a problemi che oggi non sono privi d’attualità. Fra questi c’è anzitutto quello del patrimonio storico e di come proteggerlo affinché, rispetto alle esigenze e alle visioni del futuro, non diventi un semplice baluardo. Ma la domanda pare ancillare a un’altra: in una realtà che si dichiara democratica, in cui l’organizzazione della vita di una comunità, quindi anche l’edilizia, dovrebbe essere mediata da un consenso popolare, come regolare le questioni che riguardano evoluzione ed estetica urbana, soprattutto quando queste toccano dei punti nevralgici, i luoghi esposti e pertanto simbolici di una metropoli? Da quando non è piú un re illuminato a portare da solo la responsabilità di dare un volto alla città, chi ha il diritto e il dovere di decidere? Gli specialisti, certo. Ma a parte le questioni tecniche, per le questioni estetiche, gli specialisti chi sono? Gli starchitetti?

Amburgo, 2007: Herzog & De Meuron vincono l’appalto per la costruzione della Elbphilharmonie, gigantesco edificio navaloide che conterrà insieme sala concerti, albergo, luogo gastronomico, appartamenti privati, parcheggio, piattaforma panoramica... Soprattutto, per la sua posizione di rilievo, cioè sovrastando il porto e la cosiddetta Hafencity (nuova zona urbana che, conglobandoli, cresce attorno agli storici magazzini della Speicherstadt), ledificio è chiamato ad assumere funzione di nuovo simbolo della città, o meglio, di Amburgo che vuole essere Città.

Cosí ovviamente non la vede la gran parte della popolazione locale. Che non vi si riconosce. E qui comincia la nebbia. Chi decide cosa deve simboleggiare una città? Magari non il “popolo” se è vero, come lo è in questo caso, che le visioni per l’espansione urbanistica non si basano su un referendum. E non potrebbe essere diversamente se è vero, come ancora una volta lo è qui, che il popolo tende a rifiutare categoricamente progetti che incrementano e, per forza, alterano l’aspetto a lui familiare di una città. Ora, è chiaro, occorre distinguere. La difesa del vecchio contro il nuovo può avere motivazioni sacrosante, come quando porta a smascherare un falso progresso – per restare ad Amburgo, la protesta contro il sacrificio di un pezzo storico di Altona per la costruzione un punto vendita Ikea. O come quando muove da un disagio sociale facendosi disagio anche logico, almeno per chi dipende da Hartz IV (il programma pubblico di assistenza ai poveri: la povertà non è una prerogativa meridionale) e voglia provare a mettere in relazione i propri stenti con il fasto del tutto inaccessibile, a lui come ai piú, del nuovo “simbolo” della propria città.
Bene. Ma a voler rispettare le ragioni di ogni singolo cittadino (altra nebbia: chi è sufficientemente cittadino da poter far valere le proprie ragioni?) nella progettazione del futuro urbano, probabilmente, non ci sarebbe da costruire piú niente. Ciò ovviamente non significa che non si deve per lo meno cercare di coinvolgere tutti. E in questo senso, l’iniziativa che da quest’anno si sta sperimentando proprio ad Amburgo sotto il nome di Stadtwerkstatt, sorta di officina del dialogo sulla città che coinvolge cittadini, architetti e politici, è senz’altro interessantissima, degna forse della “città intelligente” che impegna il dibattito urbanistico internazionale – a meno di non volerla interpretare pessimisticamente come un sedativo. Solo, le voci cittadine raccolte in questo contesto parlano chiaro. Sono semplici variazioni sul tema del ubi sunt (ovvero si stava meglio quando si stava peggio): Quanto sono belli i vecchi depositi nel porto! Quanto doveva essere bella la città quando erano solo le prominenti chiese protestanti a disegnarne la silhouette! E infine: quanto tutto questo viene sfigurato dal nuovo... E quindi daccapo. Il popolo (un po’ come Hugo, e non a caso) può essere terribilmente conservatore. Non gradisce il nuovo, se non è strettamente in linea con il vecchio. Si indigna dell’estetica degli esempi statuiti da un potere nuovo, e si gongola per l’estetica degli esempi statuiti dal potere storico – di solito, senza nemmeno stare a immaginare il probabile disagio delle generazioni precedenti, a loro volta confrontate, assai meno democraticamente, con il “nuovo”. Insomma: quella bella silhouette storica che tanti vorrebbero poter scrutare senza imbattersi in oggetti estranei, è sempre stata cosí perfettamente armoniosa e “tipica” o piuttosto lo è diventata col tempo? E, ancora, dobbiamo proprio farci invisibili per non disturbarlo, nella sua grandezza e nel suo sublime, il passato? 

Sarebbe bello fare simili domande a Egbert Kossak, ex sovrintendente dello sviluppo edile di Amburgo e oggi portavoce fra i piú autorevoli della protesta contro il rinnovo architettonico della città. Non è che non siano spontaneamente comprensibili certe sue posizioni, come quando per esempio indica negli Event Manager, nei Vip mediatici e in altri venditori di frottole, i veri e completamente incompetenti responsabili dell’attuale sviluppo urbanistico. O quando definisce ignobili (“brutta porcheria”), costruzioni nuove tipo le Torri danzanti. Ma Kossak si mette a sparare a zero contro tutto. Non solo contro la Elbphilharmonie che per lui comunque è un “mostro completamente informe che spezza ogni ragionevole dimensione della città”, quasi i due architetti svizzeri si fossero scordati di usare il righello. Ma contro qualunque cosa interferisca con la sky-line su citata, cioè quella “silhouette costituita dalle sue cinque grandi chiese e con la casa comunale che rappresenta, da ormai 600 anni, l’identità di Amburgo”. Come dire, Amburgo non deve essere una Città, ma deve essere la città che è sempre stata. Deve stare rintanata nel proprio passato.

Nella combinatoria davvero eccezionale e affascinante (per chi osservi da fuori) dei pregiudizi che sembrano accompagnare la controversia, non solo sulla Elbphilharmonie, ma sull’evoluzione urbanistica di Amburgo in generale, gli argomenti del sovrintendente sono i piú rappresentativi. E anche i piú deludenti. Quasi la protezione della sostanza storica, in architettura come altrove, fosse stata il principio che ha reso Amburgo quella che è o che pretende di essere, cioè la “Porta del mondo”. Insomma, il passato è una bellissima cosa. Specie quando viene esaltato ad arte, come nei romanzi di Hugo. Che, invece di parlare come un sovrintendente privo di senso poetico, parlava da poeta con tanto di senso storico (“Ceci tuera cela”). E che, invece di auspicare come soluzione il restauro della vecchia sagoma della città, cioè, piú o meno, il ritorno al tardo Medioevo, si limitava a incoraggiare i suoi lettori a salire sulle torri di Notre-Dame de Paris e a immedesimarsi nella visuale “dei corvi del 1482”. Ecco: consigliamo agli amburghesi di salire sulla torre del loro adorato San Michele e di immaginare, anacronisticamente, la panoramica della città che avevano i gabbiani del 1482.