“i” è la sesta voce del Dizionario
controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto
di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza
delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle
coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che
non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí,
in collaborazione con Il Bureau.
I, porpora, sangue sputato, riso di labbra belle
nella collera o nelle ebbrezze penitenti
Arthur Rimbaud, Vocali
nella collera o nelle ebbrezze penitenti
Arthur Rimbaud, Vocali
i
Le vocali colorate di Rimbaud
non spiegheranno, forse, l’origine segreta e la fortuna pervasiva che la “i”
incontra nell’accompagnare i nomi di tutti i prodotti piú innovativi che “una nota azienda di Cupertino” ha
ideato e prodotto negli ultimi anni (iMac, iPod, iPhone, iPad, iTunes, iOS,
iLife, iBooks, iCloud…). Fortunatamente nella guerra dei brevetti non è caduta
pure questa vocale, altrimenti i giudici (Coreani? Americani?) avrebbero avuto
qualche difficoltà a risalire all’origine prima, grafica e fonetica, del
simbolo “i” (pare scarseggino, infatti, testimoni
fenici viventi). Cosa significa oggi quella “i”? Interactive, in senso stretto e corrente, sembrerebbe una risposta
possibile. La polisemia evocata dalla “i” (Internet, Innovazione,
Interattività, Io…) segnò la fortuna della vocale almeno dal 1998 in poi, anno
della produzione del primo iMac, disegnato dal giovane Sir Jonathan Ive (Chingford, 1967) responsabile del design di altri
prodotti successivi e analogamente vocalizzati dall’iniziale del suo cognome. In
principio, verosimilmente, la “I” stava per “Internet”, suggerendo la facilità
di connessione alla rete di quel televisore futuribile di plastica colorata che
era l’iMac. Per un breve periodo una “i” triplicata divenne programma politico di italica riforma nazionale (Internet,
Inglese, Impresa) il cui insuccesso è ancora difficilmente quantificabile in
termini di PIL. Qualunque cosa voglia dire oggi la “i” che compone i nomi,
giustamente protetti commercialmente, di quei meravigliosi gingilli elettronici
mantiene un fascino che risalta grazie
al suo minuscolo, rispetto alla maiuscola della particella che la segue: nessuno
avrebbe comprato un IPOD
mentre iPod fu, immediatamente, irresistibile.
i-Thinking
Storiella monovocalica sull’innovazione in salsa Apple
Storiella monovocalica sull’innovazione in salsa Apple
I gingilli di
Stiv, rifiniti, lisci, i primi tipi di invincibili missilini di bit, li vidi.
In inizi irrisi, di chip in chip, i gingillini, finiti in Inc., ridipinti in
infiniti dipinti di Sir, li rimiri: in filmini fittizi (clip) in tipici link,
in tintinnii timbrici di silici, in scrigni piccini, in mini dischi rigidi, in
sibili di Siri, in incipit sibillini: “I think”. Vissi gli IBM insipidirsi e
l’imprinting di Bill intirizzirsi in striminziti sinistri fili di Win 3.1.
Hi hi hi, gli
indicibili impicci di diritti ricchissimi, i litigi fitti! (simili simili,
indivisibili, vicini i filippini: il “pinch” ). L’i-Thinking, Stiv, l’instilli
fin in piccini, i citti, li titilli di brividi libidici in siti mistici, in
scritti di Wiki di divini primitivi, in ministri di MIT, li sigilli in birilli
cilindrici: dividi i criticismi, li mitighi. I gingilli di Stiv, rifiniti,
lisci, limpidissimi, sí, li vidi.
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