App
Se una parola è lunga, la si abbrevia. Se nasce
corta, è meglio. Se è monosillabica, meglio ancora. L’innovazione spesso è
madre di brevi monosillabi inglesi,
radici di parole dall’origine remota, ridisegnate per i nuovi device del sapere e del saper fare. “App”
sta per “applications”, quindi “applicazione”, dal latino “applicatio”. C’è un
senso del termine latino che vale per “legame”,
“appoggio a un patrono in qualità di cliente”.
E cosí siamo, di nuovo, clienti, ma ora di store
virtuali e impalpabili. Un tempo, alle scuole Medie, c’era l’ora di “Applicazioni Tecniche”. Forse è rimasta
ancora la dicitura, ma in quell’ora è probabile che si disegnino apps (perché
spesso troverete usata la parola – anche in italiano – al plurale inglese, con
la “s”) per cellulari anziché riquadrare a matita dei fogli bianchi. Come dire,
dai fogli Pigna ai “fogli di stile”. Se le app sono piccoli software da
applicare, scaricandoli da uno store, al proprio smartphone, o ai tablet, e se
gli smartphone e i tablet sono nuove protesi cognitive, potremmo immaginare un
mondo in cui, a breve, le app si
installino direttamente nei nostri corpi. Sotto questa luce tutto il campo
biomedicale è un’applicazione di app al corpo umano. La fantascienza
cinematografica si è esercitata piú volte sull’idea del corpo “bionico”, come
di un apparato biologicamente manchevole, aperto e “aggiornabile” al quale
aggiungere “pezzi”: ad esempio memoria (Johnny
Mnemonic, 1995, da un racconto di William Gibson), oppure inquietanti
interfacce sul tipo di “bio-porte” (eXistenZ,
David Cronenberg 1999) fino ai cervelli
direttamente linkati con la Rete (H+,
webseries di Cosimo De Tommaso, 2012). Non farei rientrare, invece, nella
natura “protesica” delle app il caso del giovane tatuatore americano (tale Dave
Hurban, 21enne del New Jersey) che si è impiantato quattro calamite sottocute
per avere sempre con sé al polso il proprio mini iPod. Né le mollegambe di
carbonio dell’atleta Oscar Pistorius. Il concetto di app è, piuttosto, aereo e
fortemente intrecciato sia a quello di cloud,
perché demanda la completa funzionalità di un apparecchio alla
personalizzazione con risorse scaricabili dal web, sia a quello di open, sul versante della progettazione
delle app stesse. Interi siti web, compresi i social network, diventano app
negli, e per gli, smartphone. Anzi, le app piú usate sono quelle che meno lo
sembrano (YouTube, gli store, Google e Gmail…) e che rendono tanto appetibili
gli smartphone stessi, con un effetto di trascinamento per il quale la funzione traina l’oggetto che la
consente. Un po’ come avveniva anni fa nel campo dei videogiochi da
consolle (ora disseminate in milioni di app). Per questo, chi volesse ripensare
oggi il concetto di “homo ludens” non
potrebbe che passare attraverso uno studio delle app.
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