mercoledì 12 dicembre 2012

Homo applicans

“App” è la settima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.


 
App 
Se una parola è lunga, la si abbrevia. Se nasce corta, è meglio. Se è monosillabica, meglio ancora. L’innovazione spesso è madre di brevi monosillabi inglesi, radici di parole dall’origine remota, ridisegnate per i nuovi device del sapere e del saper fare. “App” sta per “applications”, quindi “applicazione”, dal latino “applicatio”. C’è un senso del termine latino che vale per “legame”, “appoggio a un patrono in qualità di cliente”. E cosí siamo, di nuovo, clienti, ma ora di store virtuali e impalpabili. Un tempo, alle scuole Medie, c’era l’ora di “Applicazioni Tecniche”. Forse è rimasta ancora la dicitura, ma in quell’ora è probabile che si disegnino apps (perché spesso troverete usata la parola – anche in italiano – al plurale inglese, con la “s”) per cellulari anziché riquadrare a matita dei fogli bianchi. Come dire, dai fogli Pigna ai “fogli di stile”. Se le app sono piccoli software da applicare, scaricandoli da uno store, al proprio smartphone, o ai tablet, e se gli smartphone e i tablet sono nuove protesi cognitive, potremmo immaginare un mondo in cui, a breve, le app si installino direttamente nei nostri corpi. Sotto questa luce tutto il campo biomedicale è un’applicazione di app al corpo umano. La fantascienza cinematografica si è esercitata piú volte sull’idea del corpo “bionico”, come di un apparato biologicamente manchevole, aperto e “aggiornabile” al quale aggiungere “pezzi”: ad esempio memoria (Johnny Mnemonic, 1995, da un racconto di William Gibson), oppure inquietanti interfacce sul tipo di “bio-porte” (eXistenZ, David Cronenberg 1999) fino ai cervelli direttamente linkati con la Rete (H+, webseries di Cosimo De Tommaso, 2012). Non farei rientrare, invece, nella natura “protesica” delle app il caso del giovane tatuatore americano (tale Dave Hurban, 21enne del New Jersey) che si è impiantato quattro calamite sottocute per avere sempre con sé al polso il proprio mini iPod. Né le mollegambe di carbonio dell’atleta Oscar Pistorius. Il concetto di app è, piuttosto, aereo e fortemente intrecciato sia a quello di cloud, perché demanda la completa funzionalità di un apparecchio alla personalizzazione con risorse scaricabili dal web, sia a quello di open, sul versante della progettazione delle app stesse. Interi siti web, compresi i social network, diventano app negli, e per gli, smartphone. Anzi, le app piú usate sono quelle che meno lo sembrano (YouTube, gli store, Google e Gmail…) e che rendono tanto appetibili gli smartphone stessi, con un effetto di trascinamento per il quale la funzione traina l’oggetto che la consente. Un po’ come avveniva anni fa nel campo dei videogiochi da consolle (ora disseminate in milioni di app). Per questo, chi volesse ripensare oggi il concetto di “homo ludens” non potrebbe che passare attraverso uno studio delle app.

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