“Il dualismo di
schema e contenuto, di sistema organizzante e qualcosa che aspetta di essere
organizzato, non può essere reso intelligibile e giustificabile. È esso stesso
un dogma dell’empirismo, il terzo dogma.”
Donald Davidson
Tag, questa parola ha la forma di un’etichetta. Qui precipita, nell’uso,
l’illusione ottica che segno e significato si tengano per qualche segreta
ragione, in una onomatopea che
sigla, traccia, definisce, contrassegna. Taggare –verbo che entra nel
Dizionario Italiano sia per ”marcare gli elementi di un file” sia nel gergo dei writers per “firmare
un graffito con la propria sigla”, ha riportato tutti gli scriventi al compito
di categorizzare pensieri, persone,
concetti, oggetti fisici, oggetti sociali, scritture, luoghi. Il tag ha il
benefico effetto di imporre una generalizzazione,
simil-aristotelica, sugli elementi del reale, là dove siamo ormai massimamente
analitici e incapaci di astrazioni generalizzanti. Ma facciamo un passo
indietro. Nell’inglese del Quattrocento era un piccolo pezzo di stoffa, ornamento di vestiario. Nei social network
è il modo di attribuire nomi a foto o testi e, superata la stagione “romantica”
dei blog, del web “semantico”, il tag rivive in modo eminente adesso negli hashtag, le etichette-cancelletto che interpungono, taggandola, l’intera “conversazione”
globale, il flusso della rete, la rete stessa. L’appropriatezza, la cogenza
nell’attribuzione del corretto hashtag
al contenuto informativo pubblicato (testo, foto, persona che sia) è una forma
di nuova dittatura del pensiero, la “dittatura
dell’etichettatura”, o l’etichetta dell’etichette. Ogni uso “improprio” dei tag
viene, infatti, sconsigliato, censurato. Il predominio della “rilevanza”
governa ogni scelta di marcatura. Cosí, la “sensatezza” degli hashtag depaupera ogni scarto creativo,
ogni uso potenziale, o controintuitivo. L’uso “politico” del googlebombing, ad esempio, potrebbe
essere riproposto utilmente a livello di etichettature odierne. Nell’insondabile
spazio tra saperi inconsapevoli e comprensione del reale, quale “schema concettuale” stiamo applicando
nel momento in cui scegliamo di categorizzare con un “tag” (o un hashtag) un
contenuto?
(Nel paratesto
di questo lemma, qui sotto, troverete alcuni tag, scelti dal curatore della
pubblicazione online del mio testo. Se sarò stato convincente, troverete tra
quelli anche un tag incongruo, superfluo, deviante, semanticamente irrilevante.
Se, al contrario, non lo troverete, la dittatura funziona).
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