mercoledì 30 gennaio 2013

La startup è quella cosa

“Startup” è la tredicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.

 

Quanti granelli di sabbia ci vogliono per fare un mucchio di sabbia?

Ecco il decollare di un’impresa, il verbo farsi sostantivo e fare delle startup le nuove attività imprenditoriali che, quasi per antonomasia, lavorano tutte, sempre e solo, nel campo dell’innovazione tecnologica. Anche Google, da piccolo, è stato una startup. Mai che si legga di una startup dedicata all’allevamento delle lumache, alla riparazione degli ombrelli, o una startup di pompe funebri, no. Eppure le startup hanno un “alto tasso di mortalità”, sono imprese che nascono, rischiano e, spesso, s’inabissano senza lasciare traccia di sé. Sempre e comunque tecnologia, incubatori tecnologici, formule contenitive e generative (farete caso che startup e spin-off si trovano spesso insieme, dentro appositi incubatori, in una retorica ormai molto densa che racconta del circolo virtuoso tra ricerca e impresa, università ed economia…). E mai una startup fondata da vecchietti che, come si sa, hanno problemi di deambulazione, di sollevamento, e di apertura di credito finanziario. È interessante osservare che il termine ha ricevuto legittimazione recentissima da parte del Legislatore che deve essersi posto lo stesso paradosso del “sorite” che evocavo: quanti granelli di sabbia fanno un mucchio di sabbia? Cosa definisce, “per legge”, la denominazione “startup”? Il cosiddetto “Decreto Crescita” dell’ottobre 2012 (il presente lemma, quindi, soffrirà di recentismo) ha fissato dei parametri, di data di nascita, di fatturato, di residenza. Eppure vi è un modo alternativo per definire piú efficacemente questa forma d’impresa, al di là del Grande Regolatore che è l’uso di un termine nel linguaggio comune, o la definizione normativa che una legge può fornirci: sono i versi maltusiani.

La startup è quella cosa
molto smart e che intraprende,
se non sai cosa ti vende
poi fallisce in un balen.

martedì 29 gennaio 2013

Mitologie urbane. Il mito dell’Autorità

Tommaso Matano


Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.

I dibattiti televisivi offrono sempre spunti di riflessione, soprattutto i talk show politici. Spesso mettono in opera dei meccanismi del confronto che, mutatis mutandis, valgono per tanti fenomeni della società.
 
È degna di nota in tal senso una prassi portata avanti da certi esponenti di posizioni nette, ma in definitiva minoritarie. Di solito nei talk show gli analisti o i politici piú importanti vengono fatti parlare per primi e per piú tempo. Poi la parola passa, quasi in osservanza a una regola non scritta, a chi, fino a quel momento, è rimasto semplice uditore.
Il personaggio in questione, ora, ha due vantaggi. Intanto prende la parola a dibattito già impostato. Ciò significa che gli risulterà piú semplice far valere le sue obiezioni sulle osservazioni precedenti, che invece hanno dovuto, in qualche modo, costruire l’ossatura della discussione. Inoltre, parla per la prima volta, la qual cosa dovrebbe indurre negli ascoltatori un aumento dell’attenzione, poiché la sua è una voce nuova.
Spesso questo tipo di personaggio esordisce dicendo che ha ascoltato con molta attenzione ciò che è stato detto, oppure facendo una promessa di sinteticità. Cioè dichiara, in apertura, di aderire alle regole di quella discussione, di essere idoneo a farne parte. E in piú strizza l’occhio a chi lo sta seguendo: non solo è pronto a far parte di quel dibattito, ma lo farà in maniera eccellente, stringatamente e con puntualità.
A questo punto, dopo la breve e implicita sottoscrizione delle regole, il retore annuncia la sua verità. Lo fa con un tono profetico, che scuote, perché nell’istante in cui si dichiara parte di quella discussione denuncia il fatto che la discussione non ha motivo di esistere. Di solito con frasi tipo “Voi non vi rendete conto di quello che sta succedendo…” oppure “Stasera ho sentito parlare di tutto tranne che del vero problema…”, il nostro protagonista annuncia che ciò di cui si è discusso fino a quel momento non è il vero oggetto della discussione, perché il punto centrale è quello che sta per enunciare lui.
Il fatto notevole è che ciò che dirà il nostro personaggio, la sua rivelazione, non è importante. Ciò che conta è che abbia dichiarato che la verità è un’altra ed è quella che lui conosce, e non chi lo ha preceduto.
L’effetto sui termini del dibattito sembrerebbe scompaginante, ma le cose non stanno proprio cosí. Questo personaggio non entra mai nel merito della discussione, denuncia piuttosto un errore di metodo. Questa semplificazione e generalizzazione, assieme al tono sopra le righe, contribuisce a creare l’aura profetica attorno al personaggio, ma contiene in sé una controindicazione. Il tale, infatti, dopo aver detto che sta alle regole del dibattito, e che il dibattito non ha motivo di esistere, non riesce davvero a proporne un altro. Non riesce, cioè, a riorientare la discussione, a introdurre e veicolare la sua verità come La Verità, ovvero come il problema di cui bisogna discutere. La sua posizione, che è decisa e provocatoria, nel gesto con cui destabilizza la discussione, se ne autoesclude irrimediabilmente. Nessuno ascolta ciò che dice un personaggio che si sceglie un ruolo del genere, perché il suo ruolo finisce con la sua pars destruens.
Per intenderci, sarebbe un po’ come leggere gli articoli di Marco Travaglio non per il loro valore di denuncia ma per quello che propongono, per l’opinione che veicolano. Ai suoi lettori non importa cosa pensi Marco Travaglio di un determinato problema, non è per questo che lo seguono.
L’autorità del profeta finisce quando inizia a pro-porre. La sua rivelazione è la denuncia dei limiti altrui. La sua verità è una verità negativa: lui sa cosa non è vero. Esso riformula il linguaggio e dunque si ammanta di un’autorità che nasce dalla capacità di far implicitamente credere – criticando il metodo anziché il merito della discussione – che la sua opinione sia una constatazione di fatto.
E tuttavia, alienando da sé, e dagli ascoltatori, la discussione, e disvelandone la corruzione, il profeta si distanzia inevitabilmente dalle regole, si riconosce e identifica ineludibilmente come minoranza, trasgressione. Non ha la forza per controproporre altre regole, per legiferare. La rivoluzione che conduce è la fine del regime linguistico precedente, ma al suo stesso moto sovversivo il profeta non sopravvive. Non appena finirà di far vibrare il tono millenaristico con cui la falla nel sistema sarà stata aperta, ciò che seguirà sarà solo un ronzio indistinto e noioso, un tentativo stentato di farsi carico di qualcosa che non lo riguarda, che non lo ha mai riguardato, che non lo riguarderà mai. A meno che non scelga di trasformarsi, di cambiare ruolo, di perdere il dono della purificazione.
Il nostro personaggio regalerà agli ascoltatori l’euforia dell’indignazione, e ciò gli frutterà simpatia e gratitudine, ma anche, inevitabilmente, diffidenza. Di quella rivoluzione estemporanea e fratturante, lo spettatore serberà un ricordo esteticamente positivo (se ne ricorderà), ma senza fidarsi.
Per aver denunciato la presunta falsità di un sistema, il profeta, autoincoronatosi Autorità, sarà come un magistrato speciale, un commissario incaricato di garantire la transizione da un registro semantico a un altro. Ma non starà a lui scrivere le regole della nuova discussione, poiché, come la piú agguerrita delle api, dopo aver inflitto il suo pungiglione nel corpo estraneo e orrendo dell’altro da sé, non gli resterà che l’agrodolce sapore della fine.

venerdì 25 gennaio 2013

Lo spazio è finito

Se è vero che tutto ciò che accade ha un senso, a volte devo sforzarmi tanto per capirlo.
È cosí che lo spazio è finito dove una vita sospira ancora, dove minuscole tracce di luce si intravedono nel cielo di una oscura cella.
Sí, quasi a tutto si può rinunciare, ma non a un flebile squarcio di spazio che attraversa le sbarre di una vecchia finestra, ormai logorata da mani pesanti e avvizzite dal tempo.
Un tempo che scorre sui binari di andata e si ferma in Florida, dove lo spazio è finito con la prigionia di Chico Forti, che continua a dichiararsi innocente. Un tempo che intreccia altre storie. E in Italia lo spazio è finito dentro le mura di tante prigioni “sovraffollate e indegne di un paese civile”.
Cos’altro si può rimuovere da una mente che vive e osserva? 
Maria Falcone 


Paolo Gervasi dialoga con Maria Falcone, docente di scuola carceraria e autrice del libro Carceri, lo spazio è finito edito da Infinito Edizioni. 

Maria potresti introdurci al tema del libro? 
Carceri, lo spazio è finito ripercorre un viaggio che attraversa, supera e circoscrive i labirinti piú impervi della vita umana. Comincia descrivendo una prigione arida e fredda, ubicata nelle paludi della Florida, in cui da piú di 13 anni un nostro connazionale, Chico Forti, con un numero stampato sulla divisa urla al mondo intero la sua innocenza. Ed è un urlo di dolore che solo la revisione del processo può lenire; la sola cosa che gli consentirebbe di realizzare un sogno chiamato libertà. 
Quello stesso urlo si unisce al coro unanime della famiglia Forti e di tanti amici, coloro che con molta tenacia, forza e autenticità ci fanno credere che sí… una giustizia esiste. Esiste un diritto che sovrasta tutti gli altri ed è il diritto alla vita. Un diritto che si afferma con la sola forza di poter dire: “Sí… la dignità è ciò che contraddistingue l’uomo nella sua pur limitata esistenza.”
Solo attraverso il paragone con la sofferenza fisica, sempre connessa a quella psichica, riusciamo a capire cos’è la dignità. A tutti noi è capitato di avere a che fare con la malattia, se non in quella personale ci si è imbattuti nella sofferenza di un parente o di un amico. A tutti noi è capitato, almeno una volta, di “assaggiare” la dignità dell’altro nel dolore solo quando lo ha saputo affrontare, attraversare e addolcire. Quella stessa dignità che contraddistingue Chico di fronte al dolore della perdita è quella stessa dignità che contraddistingue i detenuti italiani di fronte a gravi problemi strutturali e di inadeguatezza degli spazi. 

Il parallelismo tra la vicenda di Chico Forti e il sovraffollamento carcerario si basa sul problema dei diritti negati? 
A Chico viene continuamente rigettata la richiesta di revisione del processo. Ma perché, per quale motivo non si deve dare a quest’uomo un’altra possibilità? È un padre che deve rispondere ai figli. È un figlio che deve rispondere a una madre, mentre questa aspetta e si asciuga le lacrime. Ma sí, una grande democrazia come l’America troverà una risposta alle domande di Chico. E come cittadina italiana aspetto solo il momento della risposta, nella speranza che arrivi il prima possibile.
La stessa risposta che spero giunga anche per i prigionieri italiani non piú dalla Corte di Strasburgo, ma dall’Italia.
Per ben due volte alcuni detenuti, per vedersi riconosciuti i diritti, hanno fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. Il 16 luglio 2009 e l’8 gennaio 2013 l’Italia è stata condannata a risarcire i detenuti per danni morali subiti a causa del sovraffollamento nelle celle. 

In Italia il problema del sovraffollamento carcerario è stato piú volte segnalato dalle alte cariche dello Stato. 
Il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato e il Ministro della Giustizia hanno piú volte notificato l’insostenibilità della realtà carceraria, raccomandando l’adozione di provvedimenti disciplinari rispettosi del dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena, sui diritti e la dignità delle persone. 

Quali sono i dati che indicano la dimensione del sovraffollamento carcerario? 
In Italia ci sono 206 istituti penitenziari per adulti, suddivisi in 38 case di reclusione, 161 case circondariali e 7 istituti per le misure di sicurezza. Al 31 ottobre 2011 la capienza regolamentare era di 45.817 posti, i detenuti presenti erano 67.428, di cui 24.401 stranieri, 2.877 donne, 873 semiliberi (90 stranieri). All’interno delle prigioni italiane c’è una popolazione carceraria che supera di molto il numero consentito: esattamente 21.110 unità in eccesso. 

Un numero di detenuti considerevolmente alto. 
Certamente sí, ma il nostro paese o meglio la nostra democrazia, per quanto compiuta possa essere, in alcuni aspetti non riesce ancora a superare la frattura che si crea tra il carcere e la società. Il reato è il fatto piú effimero che possa esistere, non possono esserci sconti per chi commette un reato nei confronti di un altro. Questo è un dato certo sia per la sicurezza sociale sia per la sicurezza individuale. Quello che invece si deve raggiungere è la necessità di considerare di volta in volta l’individuo nella sua specifica pena e di incanalare la situazione verso forme di vita piú decenti. Solo quando le persone raggiungono una siffatta consapevolezza si può iniziare a parlare di carcere riabilitativo e riparativo.
Prima ancora, però, spero che si inizi a parlare di prevenzione del crimine.


mercoledì 23 gennaio 2013

Il contenuto è il contenitore

“Webinar” è la dodicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.

 


I media per fortuna sono ambigui, perché la ritualità che attivano, lo scambio di presenze e la loro evocazione, stanno a metà tra un’efficacia reale (“servono”) e la frustrazione che provocano (“ci sei, ma non ci sei, sembri qui ma non ci sei”). I media sono formidabili provocatori di nostalgia, perché sono essenzialmente evocativi: è l’evocazione la vera trasmissione che producono.
Franco La Cecla, Surrogati di presenza



Il primo uso attestato del termine è, per l’inglese, il 1998, mentre per chi lo incontrasse per la prima volta solo adesso, leggendolo qui, sarebbe il 2013. I neologismi sono oggetti strani, ed è difficile togliere loro quell’atmosfera da “alieno” che sbarca nel paesaggio della lingua anche a distanza di molti anni dal loro sbarco. Sbarco e colonizzazione, il grande arbitro regolatore che è poi sempre, alla fine, l’Uso. Cosí, fortunatamente, “webinar” rimane ancora confinato nei siti, nei contesti, nelle strutture che organizzano o pubblicizzano, appunto, webinar. Contrazione di web e seminar, indica un seminario frequentabile “a distanza”, online, dove i partecipanti intervengono secondo vari livelli d’interazione (audio, video, testi) tra loro e con i docenti/conferenzieri. Del secondo termine che compone il neologismo, “seminario”, si perde tutta la radice del “semen” e rimane solo il contenitore, -ar, dal suffisso -arium latino. Il risultato è un “doppio contenitore”, contenuto e contenitore collassano nel webinar, dove la presenza è “a distanza” perché si privilegia una piú economica, cosí si dice, trasmissione delle idee rispetto allo spostamento fisico delle persone per condividere idee. Non esiste argomento, ambito disciplinare, campo di ricerca che non possa giovarsi oggi di un apposito webinar e che non trovi in rete, realizzato, organizzato, l’adatto webinar. Un tratto comune all’innovazione, cosí come l’abbiamo vista delinearsi nel corso di questo Dizionario, nella sua grammatica di superficie, è la tautologia. Ogni parola dell’innovazione rimanda a se stessa, si “mostra”, e crea meta-esperti dell’innovazione il cui sapere specifico è tessere un elaborato meta-discorso sulle parole dell’innovazione. I webinar piú affascinanti, cosí, sono quelli che hanno per tema proprio i webinar stessi, quelli dedicati alle nuove forme di collaborazione e apprendimento in rete. Il gioco di specchi, escheriano, è compiuto. Non ci resta che accendere la webcam, fare il login e sperare in un keynote interessante.

domenica 20 gennaio 2013

I libri dei politici: il medium è il messaggio

Paolo Gervasi

Questo testo è stato pubblicato il 19 gennaio su Il Bureau.  


Se è vero che ogni crisi del libro si è presentata ciclicamente con le insegne dell’apocalisse, le difficoltà attuali del sistema editoriale presentano elementi di complessità mai sperimentati prima. Non si tratta soltanto di una sofferenza commerciale: in crisi stavolta è la funzione del libro, che rapidamente perde centralità e influenza nel sistema dei media. Assediato dalla pressione dei flussi informativi il libro si rifugia ai margini dell’universo digitale, in uno spazio in cui la tensione comunicativa si allenta e lascia respirare la sua lentezza analogica. Inseguendo la velocità dei dispositivi più giovani il libro tenta forme di ibridazione, cerca di catturare frammenti del discorso mediale, imita i linguaggi degli altri media e prende in prestito personaggi “cresciuti” altrove. Per sopravvivere il libro sdoppia la propria natura, sfrutta bagliori di luce riflessa, proponendosi come segmento di un circuito comunicativo e commerciale più ampio. E arrivando così a coincidere con il ritratto che McLuhan faceva del giornale a metà degli anni Sessanta: un mosaico, un medium che intercetta porzioni di interesse prodotte dagli altri media, la TV, la radio, il cinema e naturalmente, oggi, l’eco potente della rete.

A questa forma di ibridazione appartiene anche il fenomeno dei libri dei politici. L’editoria insegue i politici per garantirsi spazi di attenzione aperti dal discorso sull’attualità. Allo stesso tempo però l’editoria politica rivela la tenuta di una funzione simbolica che restituisce al libro una sorta di centralità di ritorno. I politici si fanno tentare volentieri dallo specchio narcisistico della copertina nel quale ammirare il proprio nome, e spesso il proprio volto. Sempre di più i momenti decisivi della carriera di un politico sono contrappuntati dalla pubblicazione di un libro.

Il sindaco di Firenze Matteo Renzi ha lanciato la propria campagna per le primarie pubblicando per Rizzoli Stil novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter. Un libro che probabilmente non ha conquistato la critica, ma che ha sintetizzato come in un manifesto la disinvoltura pop con la quale Renzi intendeva declinare la tradizione, politica e culturale. Mario Monti è attualmente in libreria con due volumi, pubblicati entrambi nel novembre del 2012: Le parole e i fatti, scritto con Federico Fubini, e La democrazia in Europa, scritto con l’eurodeputato francese Sylvie Goulard. L’offensiva editoriale montiana porta a riconsiderare anche la tempistica delle dimissioni e della candidatura, insinuando il dubbio di dover retrodare di qualche settimana la sofferta decisione della salita in politica. Del resto il profilo di Monti “scrittore” conferma ed estende quello del politico: sobrietà, rigore, pragmatismo, competenza tecnica, collocazione internazionale.

La politica editoriale di Grillo è perfettamente in linea con la strategia autarchica, di alterità radicale, che ispira la proposta politica del M5S. Di più: il fenomeno Grillo nasce come una sperimentazione editoriale, come la creazione di una piattaforma comunicativa costruita per rispondere alla chiusura degli spazi tradizionali. La produzione di libri e dvd, pensata come un segmento del sistema-Grillo, forma insieme al blog e agli spettacoli live (ai quali si sono sostituiti i comizi politici) un continuum “blindato” di proposte integrate, che resiste, generando la coflittualità violenta che sperimentiamo quotidianamente, ai tentativi di penetrazione da parte degli altri media, pubblici e privati.

A sinistra la passione per la scrittura sembra rispondere, più che alle esigenze della visibilità, ai tempi travolgenti dell’ispirazione. In primo piano non ci sono i libri di analisi politica, ma la “letteratura”: incontrastata si staglia la figura del romanziere Walter Veltroni, al quale il suo collega Christian Raimo ha dedicato ostinate analisi filologiche. Seppure probabilmente la lingua stereotipata e l’immaginario infantile di Veltroni non interessano in quanto letterariamente sbagliati, come risultano sotto la lente di Raimo, che segnala con acribia gli “errori” e gli orrori stilistici. Interessano, al contrario, proprio perché sono giusti, e forse mantenuti nell’orizzonte dello stereotipo da un sapiente ghost writing, che a quella lingua e a quell’immaginario affida la funzione comunicativa e, in senso lato, politica del libro. Emulo di Veltroni, anche Dario Franceschini frequenta la narrativa. Il realismo magico di Franceschini affianca il realismo vaticanosecondo di Veltroni, e crea un universo popolare, con accenti che mimano le storie degli ultimi di De André, filtrate dal buonismo militante di Fabio Fazio. La scrittura è veltronianamente impalpabile, il destino è quello di un epigonismo veltroniano che, se era triste politicamente, dal punto di vista letterario diventa straziante.

Il proverbiale narcisismo dalemiano ha prodotto titoli di analisi politica e di ricostruzione storica, tra i quali Il mondo nuovo. Riflessioni per il Partito Democratico. Il titolo fantascientifico, che richiama l’utopia tecnocratica immaginata da Aldous Huxley, suona vagamente autolesionistico, nonché beffardo alla luce del recente passo indietro che i venti di rinnovamento hanno imposto al lìder maximo. Un mondo nuovo, sì: ma senza D’Alema.
I due soli titoli firmati dal leader e candidato premier Bersani (Viaggio nell’economia italiana, scritto con Enrico Letta nel 2004, e il recente Per una buona ragione) puntano sulla competenza, sul pragmatismo dell’analisi economica, su una schietta sobrietà, sostenuta da un basso profilo mediatico che conferma la strategia comunicativa dell’anticomunicatore, impugnata sempre più consapevolmente da Bersani. Nichi Vendola, l’unico politico che abbia tentato a sinistra una via carismatica alla leadership, firma titoli e copertine evocativi, coerenti con il linguaggio barocco che le sue visionarie “fabbriche” gli hanno costruito addosso. Ma Vendola, si sa, prima di tutto è un poeta: le sue raccolte di versi sono funzionali alla rappresentazione del leader sognatore, realista perché chiede l’impossibile. Purtroppo per Nichi però la poesia respinge le mistificazioni, è un luogo di rigorosa verifica del linguaggio: e i suoi versi svelano inequivocabilmente l’artificio e la frequente inautenticità delle sue architetture verbali.


A destra si trovano spiazzanti tentativi saggistici come quello di Cicchitto, che ripercorre la storia della sinistra italiana “da Gramsci a Bersani”. La bibliografia di Sandro Bondi è addirittura vertiginosa: all’attività del poeta imperiale, che con i suoi ritratti in versi di favorite e cortigiani ha segnato il punto estremo della rivoluzione culturale del berlusconismo, si affiancano audaci escursioni intellettuali. La cultura è libertà, afferma Bondi nel 2011: un titolo quasi autoironico se si pensa all’esperienza di Bondi ministro poco liberamente dimissionato. Ancora nel dominio del comico e dell’autosatira si collocano titoli come La civiltà dell’amore. Politica e potere al femminile, oppure Io, Berlusconi, le donne, la poesia, che echeggia l’ariostesco incipit del Furioso: le donne, i cavalier, l’armi, gli amori. Ma non c’è più molto da ridere quando con un libro come Il sole in tasca Bondi associa la figura di Adriano Olivetti a quella di Silvio Berlusconi. Una vera e propria impostura storiografica che per fini propagandistici banalizza le idee di Olivetti accostando la sua imprenditoria sociale e civile al capitalismo rapace e criminogeno di Berlusconi.

In fatto di intrecci tra editoria e politica la figura di Berlusconi eccede quella di tutti gli altri politici-scrittori. Da editore controlla, per attenersi soltanto ai libri, due delle case editrici più importanti del Paese, Mondadori ed Einaudi, i cui prestigiosi cataloghi hanno conosciuto negli ultimi anni impercettibli ma sostanziali perturbazioni. Dell’Utri, ispiratore del progetto politico berlusconiano, è un raffinato collezionista di libri antichi, un bibliofilo la cui passione libraria proietta l’unica ombra vagamente drammatica di contraddizione intellettuale sulla farsa tutta in luce del ventennio berlusconiano.
Da “scrittore” Berlusconi firma due prefazioni che, se lette tempestivamente con attenzione, avrebbero rivelato della parabola storica del berlusconismo più di qualunque analisi politologica, sociologica o semiotica. Nel 1994, l’anno della prima discesa in campo, Berlusconi introduce un’edizione del trattato di Machiavelli sul principato, e una dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Il realismo politico di Machiavelli e il rovesciamento del senso comune di Erasmo vengono piegati alle esigenze del disegno berlusconiano: paradossale miscuglio di machiavellismo deteriore e “follia” istituzionale. La prefazione di Berlusconi al Principe si allinea a quelle di altri due “statisti” che hanno scelto di misurare le proprie ambizioni e i propri sogni di trasformazione dell’Italia sulle parole di Machiavelli, il primo teorico politico moderno: Mussolini e Craxi.


Negli anni Venti Piero Gobetti, editore perseguitato dal nascente regime fascista, pubblicava i libri di Luigi Einaudi, strumenti di militanza politica che si inserivano nel contesto dell’attualità, ma rappresentavano elaborazioni culturali destinate a durare. Oggi qualche sussulto epocale lo consegnano i titoli dei libri di Cossiga: il provocatorio Fotti il potere, uscito nel 2010, oppure la controstoria d’Italia Italiani sono sempre gli altri, sintesi folgorante dell’eterna inclinazione italiana alla dissociazione, e dei guasti sociali e politici che ha prodotto.

In definitiva nel contesto politico i libri continuano a svolgere una funzione simbolica non secondaria: riverberano sull’autore un prestigio intellettuale di sapore novecentesco, e lavorano a una occupazione degli spazi che allarga lo spettro della visibilità pubblica. Intorno al libro si struttura una ritualità sociale che genera un effetto di eco: così funzionano i libri di Vespa, che all’utilissimo ruolo di strenna natalizia abbinano la risonanza mediatica, trasformando le presentazioni in comizi e conferenze stampa. I libri dei politici, per questa tendenza a farsi vettori di esposizione e comunicazione, sono per lo più meteore che durano il tempo di una transizione politica o di una campagna elettorale. Diventano fantasmi bibliografici, disattivati, superati, spesso incomprensibili se non ricondotti al contesto della pubblicazione. La funzione comunicativa inclusa nel libro prescinde integralmente dal contenuto, e conferma un’altra delle celebri intuizioni di Marshall McLuhan: il medium è il messaggio.

giovedì 17 gennaio 2013

Mitologie urbane. Il mito dell’efficienza

Tommaso Matano

Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau

“Non possiamo quindi esperire veramente il nostro rapporto con l’essenza della tecnica finché ci limitiamo a rappresentarci la tecnicità e a praticarla, a rassegnarci ad essa o a fuggirla. Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza.”
Martin Heidegger, La questione della tecnica 

Cominciamo dai dati, anche se Wilfrid Sellars avrebbe qualcosa da ridire in proposito (è sua la formula “il mito del dato” in Empirismo e filosofia della mente).
I dati ci dicono che il mercato dell’e-commerce in Europa è in forte ascesa. L’Italia, anche grazie allo sviluppo di Amazon.it, ha visto lo shopping online crescere nel 2011 del 32%. (Si è parlato recentemente di Amazon.it in una puntata di Report, che ha sollevato dubbi sulla liceità della politica fiscale della società).
Si stima che entro il 2015 il 50% della popolazione europea effettuerà acquisti online. I settori che fatturano di piú sono il tempo libero (perlopiú il gioco d’azzardo) e il turismo.
L’e-commerce permette al produttore di vendere direttamente al consumatore, offrendo fra l’altro prezzi piú vantaggiosi, nonostante la spesa per la spedizione del prodotto. Gli studi sul couch commerce (acquisto online “dal divano”, cioè nel tempo libero) dimostrano come l’e-commerce si stia progressivamente sostituendo allo shopping vecchia maniera: si acquistano su internet non solo prodotti rari o specifici, ma perfino la spesa alimentare.
I rivenditori online, cosí, fronteggiano brillantemente la crisi, divenendo motore economico e creando posti di lavoro.
La rapidità, la comodità e l’immediatezza del servizio sembrerebbero irresistibili.

Ma laddove l’e-commerce incrementa, altrove sottrae
Si potrebbe identificare una linea di continuità in quel processo che colpisce i piccoli esercizi commerciali, prima gettati in pasto alla globalizzazione e alla grande industria, e ora anche al mercato online.
Le città hanno rinunciato da tempo e progressivamente alla loro dimensione commensurabile, fatta di pratiche comuni e interazioni sociali consolidate, nel nome della forza trascinante dell’ipermercato, della grande libreria, del centro commerciale.
Cosa cambia quando le abitudini della spesa ci portano verso un luogo che non è piú fisico?
Cosa succede a una città che non ha piú bisogno di negozi? 

Per le sue modalità, l’acquisto online si appella a un metodo che esige il massimo del rigore. 
La lista della spesa, da supporto mnemonico, diviene ordine vincolante.
Comprare su internet richiede di progettare con precisione cosa si vuole acquistare: c’è pochissimo spazio per lasciarsi suggestionare dal girovagare all’interno dell’esercizio commerciale (uno spazio ancora preservato dall’advertising e dai consigli intelligenti per gli acquisti che fanno capolino sui siti internet).
In linea con il principio d’economia che genericamente accompagna l’utilizzo della tecnologia, anche l’e-commerce, come fa il navigatore satellitare che indica il percorso da seguire senza perdite di tempo, pretende da noi la precisione per darci in cambio l’efficienza.  

Immediatezza e accessibilità delle merci acquistabili, risorse enormi, fra l’altro, per i diversamente abili, veicolano un importante aspetto estetico, inerente il nostro modo di fare esperienza: l’e-commerce chiama in causa la nostra immaginazione. Ogni volta che stiamo per comprare un prodotto ci è richiesto di figurarci, aiutati da fotografie e informazioni, di cosa si tratti. Lo spessore di un libro lo deduciamo dal numero di pagine, la comodità di un articolo d’abbigliamento da una serie di ipotesi complesse e sommarie svolte a partire da alcuni dati.
Comprare qualcosa che non possiamo percepire ci richiede di rappresentarcelo.
E questo, in un processo di accomodamento alle nostre esigenze, è un rischio.
Noi acquistiamo (e la cosa richiederebbe di avere ben in mente ciò che vogliamo) quel che ancora non conosciamo.
Il sistema automatico può non commettere errori, ma le nostre simulazioni?

Di piú, l’e-commerce trasforma l’esperienza dell’acquisto in un processo attuabile da casa. Questa osservazione, in tutta la sua lapalissiana banalità, ha un corollario: nel tessuto urbano, le zone commerciali perdono la propria sensatezza.

Attraverso il web, il negozio si colloca ovunque e sempre. Uno smartphone è in grado di compiere acquisti dalla cima di una montagna o dalla battigia di una spiaggia, di giorno o di notte. 
Lo shopping online, in altre parole, diviene un servizio continuamente a nostra disposizione, che non risponde piú ad alcune semplici regole come la provenienza e la disponibilità di certe merci o l’orario di apertura del distributore. Per rendersi massimamente fruibile dall’uomo, il servizio si dis-umanizza, inizia a funzionare come se al fondo il suo sostrato non fosse il lavoro e l’ambiente umano ma un dispositivo autoalimentato, onnipresente e anonimo.
Il meccanismo della compravendita si meccanicizza per rendersi impiegabile con la massima facilità, allontanandosi dalla corporeità della poiesis, il processo della produzione che sta alla sua origine. Cosí, spogliato della sua macchinosità, il meccanismo diviene capace di orientare la topografia della città tanto da ridimensionare il significato dei luoghi fisici in cui avviene il commercio, cioè quei luoghi che delle città sono stati motori propulsivi. 
In questa eterea trascendenza offerta dalla rete, rimane lo scoglio della consegna, il fatto che la merce sia ancora un prodotto fisico da recapitarsi, ma gli e-book ci insegnano che la metamorfosi anche in questo senso potrebbe raggiungere vette impensate. 

La città, deprivata di una sua componente fondamentale, il mercato, si ri-pro-getta verso nuove direzioni. Se tornasse oggi, Zarathustra forse dovrebbe annunciare la morte di Dio attraverso un fastidioso pop-up pronto a sbucare proprio mentre proviamo a comprare un libro (magari di Nietzsche) su internet. Oppure, meglio, nei centoquaranta caratteri di Twitter. 

Lo shopping online ci sgrava dal peso di recarci ad acquistare i prodotti.
Ma chi sceglie le verdure che ci vengono recapitate a casa? A chi deleghiamo questa responsabilità? Non al commerciante di fiducia, ma al sistema, a un anonimo meccanismo nel quale, a un certo punto della catena di montaggio, qualcuno seleziona il cibo che mangeremo e che abbiamo scelto perentoriamente, comunicandolo non attraverso una richiesta, o una domanda, ma per mezzo di un ordine. Già siamo nel lessico della tecnica, già siamo nel modo del dispositivo (l’ordine va eseguito, non esaudito).
Cosí, mentre la metropoli si ingigantisce e si massifica, invitandoci a blindare le porte di casa, anziché a lasciarle aperte, in questo clima di tendenziale e crescente diffidenza verso l’altro da sé, noi ci fidiamo del sistema, del marchingegno automatico cui demandiamo addirittura la scelta del cibo che mangeremo. E questo, forse, perché percepiamo quel processo come meccanico, come se dietro non ci fossero delle persone. Ci affidiamo alla spesa online perché pensiamo che sia autoprodotta, che non siano degli sconosciuti a scegliere il cibo per noi ma una macchina progettata apposta per questo.
Negli umani riponiamo meno fiducia che negli strumenti che essi producono, perché gli strumenti sono infallibili. La stessa dicitura “errore umano” è un pleonasmo: l’errore è sempre umano. 

Cosa succede a una città, quando la sua stessa intelligenza ne mette a rischio alcune strutture fondamentali? 

Cosa accade quando ci ravvediamo dall’euforica ebbrezza in cui ci getta la tecnologia?

Ai postumi l’ardua sentenza.

Oggi, intanto, a cinquant’anni dalla conferenza di Monaco in cui Heidegger poneva la celebre questione della tecnica, l’esigenza di pensare il progresso, anziché limitarsi a viverlo, sembrerebbe reclamare la sua attualità.

mercoledì 16 gennaio 2013

L’enigma del mosaico

“QR” è l’undicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.
 

Un certo giorno iniziammo ad affacciarci sul mosaico in bianco e nero di queste finestrelle, come Alice davanti allo specchio. Uno scatto di fotocamera, la scansione dell’occhio digitale, apriva un accesso a qualcosa d’altro. I QR code sono nuovi, vecchi ormai, passaporti di accesso (o “passaporte”, portkeys, per usare categorie dell’universo “harrypotteriano”) che conducono solitamente all’effimero. La bellezza di questi “codici a barre bidimensionali” sta nella loro geometrica esattezza: il moderno che mima l’antico mosaico, in una forma grafica che, immediatamente, comunica che ci sta cifrando qualcosa. Nascondere per rivelare è uno dei meccanismi piú antichi della comunicazione. Le due consonanti stanno qui per “Quick” e “Read”, o anche “Quick Response”, dove il “quickly” rimane, evidentemente, uno dei miti piú potenti della modernità tutta. Questi codici hanno, in origine, un certo legame con la filosofia del “lean thinking”, perché furono introdotti nei primi anni Novanta, in Giappone, proprio per tracciare componenti d’auto in modo piú razionale ed economico. Nel dibattito tra uso dei QR code e uso degli RFID, spesso non si tiene conto del semplice aspetto percettivo, della forma fisica che li differenzia. Gli RFID comunicano la magia della trasmissione di un contenuto senza contatto, a radiofrequenza appunto. I codici QR interpellano, invece, la categoria iperoccidentale del “vedere”, del decifrare con lo sguardo. Non a caso, infatti, questi codici sono stati utilizzati anche all’interno di forme “artistiche”, in quadri o fotografie. Dunque, questi mosaici-labirinto cifrano informazioni per condensarle e trasportare il lettore a un contenuto informativo – spesso il collegamento ipertestuale a una porzione di web – in modo rapido. Ma il concetto di rapidità si è talmente evoluto, o distorto, che dover prendere uno smartphone per inquadrare con la fotocamera il quadretto del QR code prima di ricevere la rivelazione del contenuto al quale il piccolo mosaico in bianco e nero rimanda, può essere ormai percepita – dai piú – come procedura macchinosa e tutt’altro che “quick”. Resta allora solo il fascino della “cifratura”, della soglia, come nello specchio che si scioglie e fa passare Alice dall’altra parte; resta quel senso di enigma che anche il piú insignificante e inutile tra i molti QR code disseminati in riviste, giornali, manifesti pubblicitari, cellophane di piantine da supermercato è in grado di restituirci.

mercoledì 9 gennaio 2013

Il labirinto magico

“RFID” è la decima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.


RFID è un acronimo infido. Si capisce che a leggerlo occorra, anche in italiano, vocalizzare la “erre”, là dove l’inglese pronuncia “ar” tale consonante. La Sigla sta per Radio Frequency IDentification, vale A dire Identificazione a radio frequenza. C’è qualcosa che riconosce qualcos’altro, Tracciandolo, sia esso cosa, persona O animale, grazie a questo sistema di Riconoscimento, che può assumere diverse forme e funzioni. Ad esempio piccole etichette, dentro un abito, Racchiuse nella confezione di un disco, in un passaporto E in uno skipass, in una tessera Per parcheggiare nel centro storico di una città O nel biglietto di una mostra. In RFID sentiamo il fidarsi, come spesso nei giochi di parole intorno al feed, ai “feed”, sentiamo l’affidarsi a un Tornare indietro, chiediamo E cerchiamo “feedback” delle Nostre azioni. RFID È una tecnologia levigata, capace di portare reale innovazione negli usi, nei comportamenti, nelle abitudini d’identificazione e riconoscimento e in modo non invasivo (anche nel caso degli innesti sottocute per l’identificazione degli animali). È “moderna” perché Toglie Ogni Parvenza meccanica nelle procedure di riconoscimento, ingresso, validazione, archiviazione. Lo sfiorare, l’avvicinarsi a un “lettore” che legge E riconosce le diverse informazioni contenute nel tag. Ecco, tag e RFID vanno insieme, come Dedalo e il labirinto. Certe etichette somigliano, appunto, A piccoli labirinti: quadrati concentrici che custodiscono, argentei, vita morte e miracoli di un prodotto, destinazione, costo, peso, Residenza. Labirinti che tracciano noi stessi, O i nostri consumi, i nostri desideri. Altri piccoli labirinti, simili, si ritrovano nei Codici QR (che meriterebbero, o meriteranno, voce autonoma nel nostro Dizionario). La privacy non è minacciata dalla Tecnologia RFID, semplicemente per il fatto che la privacy, l’Anonimato, non esiste piú, è un concetto che Serve solo per discutere, in convegni e pubblicazioni, sui temi legati alla violazione della privacy stessa, feticcio fantasma, flatus vocis che origina pure un suo Garante istituzionale. La pervasiva e invisibile efficacia della tecnologia RFID ci protegge e ci semplifica la vita, come un messaggio cifrato che funzioni da nuovo “apritisesamo”. Il valore delle formule magiche di un tempo sta oggi racchiuso in questi dispositivi dal potere nascosto e abilitante, veri nuovi talismani digitali, sottilissimi quadrati magici da indossare. 

(Il testo contiene una formula magica: Sator Arepo Tenet Opera Rotas)

mercoledì 2 gennaio 2013

Il sistema che verrà


“Tablet” è la nona voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.




Dialogo tra un venditore di tablet e un passeggere. Qui la versione analogica.


Venditore. Tablet, tablet nuovi; kindle, kobo, iPad mini, e-reader nuovi. Bisognano, signore, tablet?
Passeggere. Tablet con un nuovo sistema operativo?
Venditore. Sí signore.
Passeggere. Credete che sarà felice questo sistema nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo sí, certo.
Passeggere. Come l’installato passato?
Venditore. Piú piú assai.
Passeggere. Come quello di là?
Venditore. Piú piú, illustrissimo.
Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che il nuovo sistema fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere. Quanti sistemi operativi nuovi sono passati da che voi vendete cotesti gingilli?
Venditore. Saranno vent’anni, illustrissimo.
Passeggere. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse il sistema  venturo?
Venditore. Io? non saprei.
Passeggere. Non vi ricordate di nessun sistema operativo in particolare, che vi paresse felice?
Venditore. No in verità, illustrissimo.
Passeggere. E pure Android è una cosa bella. Non è vero?
Venditore. Cotesto si sa.
Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato ad aggiornare sistemi, cominciando da che nasceste?
Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né piú né meno, con tutti i sistemi operativi che avete installato e dovuto aggiornare dopo poco?
Venditore. Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che altro sistema vorreste usare? Quello ch’ho usato io, o quello del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, passata a cambiare sistemi operativi, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore. Lo credo cotesto.
Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore. Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere. Oh che sistema vorreste voi dunque? Linux?
Venditore. Vorrei un sistema cosí, come Dio me lo mandasse, senz’altri patti.
Passeggere. Un sistema  a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa del sistema nuovo?
Venditore. Appunto.
Passeggere. Cosí vorrei ancor io se avessi a rivivere, e cosí tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato piú o di piú peso il male che gli è toccato installare, che il bene che dai tablet ha ricavato; se a patto di riavere il sistema operativo di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quel sistema operativo ch’è una cosa bella, non è il sistema che si conosce, ma quello che non si conosce; non la versione passata, ma la futura. Col sistema nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore. Speriamo.
Passeggere. Dunque mostratemi il tablet piú bello che avete.
Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trecento soldi.
Passeggere. Ecco trecento soldi.
Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla tra un mese, per l’aggiornamento.
Tablet, tablet nuovi; kindle, kobo, iPad mini, e-reader nuovi...

(scritto utilizzando il sistema operativo Mac OS X 10.5 Leopard)