Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che
organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che
attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.
I dibattiti televisivi
offrono sempre spunti di riflessione, soprattutto i talk show politici. Spesso
mettono in opera dei meccanismi del confronto che, mutatis mutandis, valgono per tanti fenomeni della società.
È degna di nota in tal senso una
prassi portata avanti da certi esponenti di posizioni nette, ma in definitiva minoritarie.
Di solito nei talk show gli analisti o i politici piú importanti vengono fatti
parlare per primi e per piú tempo. Poi la parola passa, quasi in osservanza a
una regola non scritta, a chi, fino a quel momento, è rimasto semplice uditore.
Il personaggio in
questione, ora, ha due vantaggi. Intanto prende la parola a dibattito già
impostato. Ciò significa che gli risulterà piú semplice far valere le sue obiezioni
sulle osservazioni precedenti, che invece hanno dovuto, in qualche modo,
costruire l’ossatura della discussione. Inoltre, parla per la prima volta, la
qual cosa dovrebbe indurre negli ascoltatori un aumento dell’attenzione, poiché
la sua è una voce nuova.
Spesso questo
tipo di personaggio esordisce dicendo che ha ascoltato con molta attenzione ciò
che è stato detto, oppure facendo una promessa di sinteticità. Cioè
dichiara, in apertura, di aderire alle regole di quella discussione, di essere
idoneo a farne parte. E in piú strizza l’occhio a chi lo sta seguendo: non solo
è pronto a far parte di quel dibattito, ma lo farà in maniera eccellente,
stringatamente e con puntualità.
A questo punto,
dopo la breve e implicita sottoscrizione delle regole, il retore annuncia la
sua verità. Lo fa con un tono profetico, che scuote, perché nell’istante in cui
si dichiara parte di quella discussione denuncia il fatto che la discussione
non ha motivo di esistere. Di solito con frasi tipo “Voi non vi rendete conto
di quello che sta succedendo…” oppure “Stasera ho sentito parlare di tutto
tranne che del vero problema…”, il nostro protagonista annuncia che ciò di cui
si è discusso fino a quel momento non è il vero oggetto della discussione,
perché il punto centrale è quello che sta per enunciare lui.
Il fatto notevole
è che ciò che dirà il nostro personaggio, la sua rivelazione, non è importante. Ciò che conta è
che abbia dichiarato che la verità è un’altra ed è quella che lui conosce, e non chi
lo ha preceduto.
L’effetto sui termini del dibattito sembrerebbe scompaginante, ma le
cose non stanno proprio cosí. Questo personaggio non entra mai nel merito della
discussione, denuncia piuttosto un errore di metodo. Questa semplificazione e
generalizzazione, assieme al tono sopra le righe, contribuisce a creare l’aura
profetica attorno al personaggio, ma contiene in sé una controindicazione. Il
tale, infatti, dopo aver detto che sta alle regole del dibattito, e che il
dibattito non ha motivo di esistere, non riesce davvero a proporne un altro.
Non riesce, cioè, a riorientare la discussione, a introdurre e veicolare la sua
verità come La Verità, ovvero come il problema di cui bisogna discutere. La sua
posizione, che è decisa e provocatoria, nel gesto con cui destabilizza la
discussione, se ne autoesclude irrimediabilmente. Nessuno ascolta ciò che dice un personaggio che si sceglie un ruolo del
genere, perché il suo ruolo finisce con la sua pars destruens.
Per intenderci, sarebbe un po’ come leggere gli articoli di Marco Travaglio non per il loro valore
di denuncia ma per quello che propongono, per l’opinione che veicolano. Ai suoi
lettori non importa cosa pensi Marco Travaglio di un determinato problema, non è
per questo che lo seguono.
L’autorità del
profeta finisce quando inizia a pro-porre. La sua rivelazione è la denuncia
dei limiti altrui. La sua verità è una verità negativa: lui sa cosa non è vero.
Esso riformula il linguaggio e dunque si ammanta di un’autorità che nasce dalla
capacità di far implicitamente credere – criticando il metodo anziché il merito
della discussione – che la sua opinione sia una constatazione di fatto.
E tuttavia, alienando da sé, e dagli ascoltatori, la discussione, e
disvelandone la corruzione, il profeta
si distanzia inevitabilmente dalle regole, si riconosce e identifica
ineludibilmente come minoranza, trasgressione. Non ha la forza per
controproporre altre regole, per legiferare. La rivoluzione che conduce è la
fine del regime linguistico precedente, ma al suo stesso moto sovversivo il
profeta non sopravvive. Non appena finirà di far vibrare il tono millenaristico
con cui la falla nel sistema sarà stata aperta, ciò che seguirà sarà solo un
ronzio indistinto e noioso, un tentativo stentato di farsi carico di qualcosa
che non lo riguarda, che non lo ha mai riguardato, che non lo riguarderà mai. A
meno che non scelga di trasformarsi, di cambiare ruolo, di perdere il dono
della purificazione.
Il nostro
personaggio regalerà agli ascoltatori l’euforia dell’indignazione, e ciò gli
frutterà simpatia e gratitudine, ma anche, inevitabilmente, diffidenza. Di quella
rivoluzione estemporanea e fratturante, lo spettatore serberà un ricordo
esteticamente positivo (se ne ricorderà), ma senza fidarsi.
Per aver denunciato la presunta falsità di un sistema, il profeta, autoincoronatosi
Autorità, sarà come un magistrato
speciale, un commissario incaricato di garantire la transizione da un registro
semantico a un altro. Ma non starà a lui scrivere le regole della nuova
discussione, poiché, come la piú agguerrita delle api, dopo aver inflitto il
suo pungiglione nel corpo estraneo e orrendo dell’altro da sé, non gli resterà
che l’agrodolce sapore della fine.
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