Quanti
granelli di sabbia ci vogliono per fare un mucchio di sabbia?
Ecco il
decollare di un’impresa, il verbo farsi sostantivo e fare delle startup le nuove attività
imprenditoriali che, quasi per antonomasia, lavorano tutte, sempre e solo, nel
campo dell’innovazione tecnologica. Anche
Google, da piccolo, è stato una startup. Mai che si legga di una startup
dedicata all’allevamento delle lumache, alla riparazione degli ombrelli, o una
startup di pompe funebri, no. Eppure le startup hanno un “alto tasso di
mortalità”, sono imprese che nascono, rischiano e, spesso, s’inabissano senza
lasciare traccia di sé. Sempre e comunque tecnologia, incubatori tecnologici, formule contenitive e generative (farete
caso che startup e spin-off si
trovano spesso insieme, dentro appositi incubatori, in una retorica ormai molto
densa che racconta del circolo virtuoso tra ricerca e impresa, università ed economia…). E mai una startup
fondata da vecchietti che, come si sa, hanno problemi di deambulazione, di
sollevamento, e di apertura di credito finanziario. È interessante osservare
che il termine ha ricevuto legittimazione recentissima da parte del Legislatore
che deve essersi posto lo stesso paradosso del “sorite” che evocavo: quanti granelli di sabbia fanno un mucchio
di sabbia? Cosa definisce, “per legge”, la denominazione “startup”? Il
cosiddetto “Decreto Crescita” dell’ottobre 2012 (il presente lemma, quindi,
soffrirà di recentismo) ha fissato dei parametri, di data di nascita, di
fatturato, di residenza. Eppure vi è un modo alternativo per definire piú
efficacemente questa forma d’impresa, al di là del Grande Regolatore che è l’uso
di un termine nel linguaggio comune, o la definizione normativa che una legge
può fornirci: sono i versi maltusiani.
La startup è quella cosa
molto smart
e che intraprende,
se non sai cosa ti vende
poi fallisce in un balen.
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