mercoledì 20 febbraio 2013

Stare negli store


“Store” è la sedicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.



Hanno veramente ragione i filosofi quando dicono che il grande e il piccolo
sono relativi. Forse i lillipuziani potrebbero trovare un popolo cosí piccolo, in
loro confronto, come essi parvero a me; e chi sa che questa genìa di uomini
colossali non sia a sua volta lillipuziana al paragone di qualche altra razza
vivente in un paese non ancora scoperto?
Jonathan Swift, I Viaggi di Gulliver

Per quale motivo il termine “store” si è diffuso cosí tanto? Nelle insegne dei negozi nelle strade, nelle periferie come in centro, nelle applicazioni, sul web. Lo “store” non è un negozio, non nega nessun ozio, anzi, perché lo store è un mondo semantico completo e autosufficiente (concept store) organizzato in modo da incoraggiare lo “stare” piú che il comprare. Lo store ci vende, propriamente, il tempo che ci spendiamo dentro, sia esso un luogo fisico, un’applicazione o un sito web,  poiché  si presenta come lo spazio logico e immateriale non piú dello scambio tra merci e desideri, quanto  del semplice esperire il contatto con essi: nello store impariamo, multisensorialmente, a  conoscere oggetti (ma anche beni immateriali) e, soprattutto, impariamo a riconoscere in noi il desiderio di quegli oggetti, di quei beni. Non vi è piú niente, nella parola attuale, né dell’originale inglese (un “magazzino”, già dal 1300), né del “instaurare” latino, né dello stauròs greco (che in quello neotestamentario da palo diviene “croce”). Lo store appare oggi luogo di salvezza, casachiesa di nuove religioni piú o meno volontarie dai loghi luminosi, oppure porto franco di statinazione immaginari. Lo stare negli store somiglia alla duplice esplorazione di Lemuel Gulliver nel suo incontro con i minuscoli lillipuziani, prima, e con i brobdingnaghesi colossali, poi: ci aggiriamo come giganti tra balocchi tecnologici o tra oggetti di un mondo miniaturizzato, in scala, custodito perché ricreato dai confini dello store; e allo stesso tempo, esso è il formicaio di occhi, di gambe e mani microscopiche – noi giocattolini, omuncoli, soldatini in paziente fila e attesa d’entrare, a volte pernottanti sui marciapiedi – nelle terre delle colossali aziende che li marchiano. L’ambiente fisico degli store è sempre trasparente, perché nella trasparenza vitrea delle sue pareti sia possibile specchiare la propria identità, pareti che servono a darci identità al pari della validazione cui lo store, nella sua forma immateriale, on line, ci sottopone quando chiede di “autenticarci”, di “loggarci”. Lo store autentica sempre un’esperienza di sé in cui l’acquistare è solo una componente, e nemmeno la piú importante, del processo di contatto con il marchio cui lo store appartiene. Non è lontano il giorno in cui gli store (fisici) architettonicamente piú interessanti genereranno viaggi e turismo, al pari dei musei antichi e moderni. O forse quel giorno è già passato.


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