“Store”
è la sedicesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che
aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità.
Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare,
parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario
puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.
Hanno
veramente ragione i filosofi quando dicono che il grande e il piccolo
sono
relativi. Forse i lillipuziani potrebbero trovare un popolo cosí piccolo, in
loro
confronto, come essi parvero a me; e chi sa che questa genìa di uomini
colossali
non sia a sua volta lillipuziana al paragone di qualche altra razza
vivente
in un paese non ancora scoperto?
Jonathan Swift, I Viaggi di Gulliver
Jonathan Swift, I Viaggi di Gulliver
Per
quale motivo il termine “store” si è diffuso cosí tanto? Nelle insegne dei
negozi nelle strade, nelle periferie come in centro, nelle applicazioni, sul
web. Lo “store” non è un negozio,
non nega nessun ozio, anzi, perché lo store è un mondo semantico completo e
autosufficiente (concept store)
organizzato in modo da incoraggiare lo “stare” piú che il comprare. Lo store ci
vende, propriamente, il tempo che ci spendiamo
dentro, sia esso un luogo fisico, un’applicazione o un sito web, poiché si presenta come lo spazio logico e immateriale non piú
dello scambio tra merci e desideri, quanto del semplice esperire il contatto con essi: nello store impariamo, multisensorialmente,
a conoscere oggetti (ma anche
beni immateriali) e, soprattutto, impariamo a riconoscere in noi il desiderio
di quegli oggetti, di quei beni. Non vi è piú niente, nella parola attuale, né
dell’originale inglese (un “magazzino”, già dal 1300), né del “instaurare”
latino, né dello stauròs greco (che in quello neotestamentario da palo diviene
“croce”). Lo store appare oggi luogo di
salvezza, casachiesa di nuove religioni piú o meno volontarie dai loghi
luminosi, oppure porto franco di statinazione immaginari. Lo stare negli store somiglia alla duplice
esplorazione di Lemuel Gulliver nel
suo incontro con i minuscoli lillipuziani, prima, e con i brobdingnaghesi
colossali, poi: ci aggiriamo come giganti
tra balocchi tecnologici o tra oggetti di un mondo miniaturizzato, in
scala, custodito perché ricreato dai confini dello store; e allo stesso tempo, esso
è il formicaio di occhi, di gambe e mani
microscopiche – noi giocattolini, omuncoli, soldatini in paziente fila e
attesa d’entrare, a volte pernottanti sui marciapiedi – nelle terre delle
colossali aziende che li marchiano. L’ambiente fisico degli store è sempre
trasparente, perché nella trasparenza
vitrea delle sue pareti sia possibile specchiare la propria identità,
pareti che servono a darci identità al pari della validazione cui lo store,
nella sua forma immateriale, on line, ci sottopone quando chiede di
“autenticarci”, di “loggarci”. Lo store autentica sempre un’esperienza di sé in
cui l’acquistare è solo una componente, e nemmeno la piú importante, del
processo di contatto con il marchio
cui lo store appartiene. Non è lontano il giorno in cui gli store (fisici)
architettonicamente piú interessanti genereranno viaggi e turismo, al pari dei musei antichi e moderni. O forse quel
giorno è già passato.
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