Tommaso Matano
Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi
narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti
sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.
La
giovane studentessa intrappolata nel traffico mentre tenta di andare a lezione
fotografa con il proprio smartphone la nebbia al di là del suo finestrino,
caricando l’immagine su Facebook con la didascalia “Se il buongiorno si vede dal
mattino…”. Sono le 8 e qualche minuto. La città è ancora nel dormiveglia.
Dopo
poco arrivano i primi segnali d’apprezzamento. Un temerario si lancia in un
commento: “Che ci fai già in piedi?”. Lo smartphone della ragazza si accende
come un albero di Natale. Alcuni compagni d’università fanno fioccare i pollici
levati del Mi piace, aderiscono al
suo gesto pubblico, la sua condivisione.
Nel corso della giornata la nebbia si
dirada. Sui social network non compaiono altre testimonianze del maltempo.
Passano
le ore.
Quella stessa sera, la ragazza, insieme a
molti amici, si reca presso un locale dove si svolge, con cadenza settimanale,
una serata a tema. La sua partecipazione era già stata confermata, sempre
tramite Facebook, con una lapidaria risposta (Parteciperò) a un Invito all’Evento
formulato da un suo conoscente.
Alla
festa la ragazza incontra molte persone di sua conoscenza con le quali si
intrattiene, seppur distrattamente. Scatta di nuovo una fotografia, sempre
con il suo smartphone, ma stavolta all’insegna del locale in cui si svolge la
serata. Condivide la fotografia su Facebook, aggiungendo le persone con cui si
trova e il luogo. Dopo aver reso pubblica la sua collocazione spazio-temporale,
la ragazza si lascia coinvolgere dagli astanti, senza negare una sbirciatina
allo smartphone che vibra ogniqualvolta qualcuno, dal proprio computer, o dal
proprio telefono, clicca Mi piace in
riferimento alla sua foto. Raggiunto un sufficiente grado d’approvazione del
contesto sociale, cioè soddisfatte le aspettative degli amici (grazie al conseguimento di molti like), la ragazza è pronta a dedicarsi alla festa. La sua ansia da
prestazione sociale è svanita.
Il
giorno dopo la sua pagina Facebook testimonierà fedelmente che la ragazza ha partecipato all’evento. Vi saranno
fotografie che la ritraggono, e persone che ne discutono.
Disciplinato, perfetto esemplare, ligio
alle regole e proporzionato al contesto, la ragazza, con il gesto oblativo
della condivisione, avrà finalmente svolto il suo dovere.
La sua partecipazione sarà stata sensata soltanto nel momento in cui, nel
prender parte all’evento, avrà reso partecipi anche gli altri utenti. Soltanto,
cioè, se non avrà tradito le aspettative degli spettatori.
Ora
vorremmo tentare di capire quale sia la differenza tra l’esperienza
di quella fotografia scattata in solitudine ed esposta nella vetrina di una
dimensione pubblica (il vissuto personale di una mattinata di nebbia), e il
coinvolgimento in un accadimento collettivo.
In cosa divergono queste due dimensioni
dell’intersoggettività virtuale?
Innanzitutto
l’evento ci preesiste, e in qualche misura ci trascende. L’evento c’è
indipendentemente dalla nostra individualità. L’evento, in quanto fenomeno
collettivo, si dà in modo necessario e universale, quasi svincolato dalla
volontà dei singoli. All’evento si può partecipare oppure no, esso dipende da
noi solo indirettamente. Notiamo per inciso che perfino l’organizzatore è in
qualche modo libero dal peso dell’istituzione dell’evento, che lo oltrepassa e
sembra vivere di vita propria.
Mentre
il vissuto personale viene alla presenza a partire dal nostro agire, l’evento
in quanto fatto storico accade. La nostra foto
del traffico ci fa alzare la voce per un attimo nel viavai delle informazioni
della piazza virtuale; la nostra partecipazione all’evento secondo i dettami
che il medium richiede è invece un gesto d’assenso, non di iniziativa.
È il dire
sí a qualcosa che il contesto pretende, è il prender parte alla storia,
essere presenti all’avvento di un fatto.
Il
fenomeno della mattinata nebbiosa è creato
dall’azione positiva di caricare la fotografia su Facebook e colorato dall’assiologia
del commento che la accompagna. È un fatto che nella dimensione pubblica non
esiste indipendentemente dal gesto che lo rende manifesto. Non si tratta di una
notizia. È un vissuto, un insieme di percezioni e considerazioni, il grigio del
cielo, il nervosismo causato dal traffico, la frenesia della mattina, la
prospettiva amara di una lunga giornata, il tutto condensato in icona e offerto
allo sguardo altrui.
L’evento
invece si caratterizza per la somma dei vissuti che vivono al suo interno, e che non sono
autonomi, perché dipendono dall’evento stesso. Il fatto è che l’immagine che
noi tutti abbiamo dell’infrangersi dei due aerei contro le Torri Gemelle, l’undici settembre del 2001, si è strutturato come ricordo evenemenziale in quanto la
storicità dell’accaduto è stata garantita dalla dimensione pubblica globale del
fatto.
Un
evento è tale quando gli viene dedicata attenzione da un mondo di persone.
I social network hanno il potere di
riorganizzare questa esperienza, un tempo ottenuta solo grazie all’elaborazione
collettiva dei grandi mezzi d’informazione.
I
social network permettono di storicizzare, in piccolo, la festa cui siamo
stati ieri sera. Lo fanno offrendoci la possibilità di condividere con gli
altri la testimonianza dell’accaduto.
Non solo: i social network (e gli smartphone) ci dicono che l’evento è
testimoniabile in tempo reale, cioè
che nell’attimo in cui si compie, l’accadimento è già storia. È già
ripercorribile, riproducibile, rivisitabile, falsificabile. Il qui ed ora è già foto su Facebook, è già
lí e sempre.
La
ragazza che torna a casa dalla festa sa che a differenza del suo ricordo
della mattina uggiosa, che pure Facebook le ha permesso di rendere pubblico, il
suo vissuto della festa si inserirà in una rete elaborativa interconnessa e
collettiva. Il suo vissuto della festa perderà cioè qualunque connotazione di suo vissuto per essere l’evento festa. E cosí anche la sua elaborazione
del ricordo sarà necessariamente influenzata da questa modalità condivisa di
discuterne, di ritrovarsi, di riconoscersi. Darà rilevanza a dei particolari
emersi attraverso il confronto con gli altri, valuterà diversamente certi
aspetti.
Questo
è un fenomeno che avviene spesso quando siamo in contesti di compartecipazione, ad esempio
quando vediamo un film insieme ad altre persone. Solitamente, lo si voglia o
no, il giudizio degli altri influenza un po’ anche il nostro, direttamente o
antiteticamente, perché la discussione sul film impone una presa di posizione
dialettica che la visione in solitudine non richiede. Con l’elaborazione
collettiva dell’evento sui social network, questa realtà viene iperbolizzata,
sia dall’enormità della partecipazione alla “discussione”, sia dalla vaghezza
dei termini del discutere. Un commento, due parole, un like: non è necessaria una vera argomentazione. In fondo, è sempre
di Facebook che si sta parlando.
La
partecipazione all’evento, in ultima analisi, ci garantirà l’appagamento di un
riconoscimento. Nel prender parte ci scopriremo parte di qualcosa di
grande, condiviso, pregresso, e in quanto testimoniabile e storicizzabile, in
qualche modo sempiterno.
Nell’esservi ci identificheremo, ci
conteremo, ci daremo un nome, un senso.
Sapremo
di cosa si starà parlando quando se ne parlerà, ci chiederemo a
vicenda se ricordiamo una circostanza piuttosto che un’altra. Ripercorreremo le
dinamiche e i vissuti dell’evento, lo faremo per consolidarne la memoria, per
evitarne l’oblio, lo faremo perché servirà per sentirci integri e integrati. Lo
faremo per darci un volto, per sentirci parte della comunità che attraverso l’evento
sarà inaugurata, o che attraverso l’evento (è il caso degli appuntamenti con
cadenza ripetuta) sarà rinnovata.
Lo
faremo per decidere di aver vissuto ciò che si
dirà che sia accaduto.
Parteciperemo alla festa per darci la
responsabilità di raccontarla.
Nel costruire la storia pubblica su ciò
che è avvenuto, saremo anche noi autori,
forse inconsapevoli, della mitologia dell’evento.
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