mercoledì 13 marzo 2013

Il futuro è un’abitudine


“Augmented Reality” è la diciannovesima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí, in collaborazione con Il Bureau.



L’espressione “realtà aumentata” è presente da diversi anni nel dibattito dell’innovazione. Di tanto in tanto, però, all’affacciarsi d’una nuova app o di un nuovo dispositivo, la formula riappare come il ritrovato piú sintetico ed esemplificativo della modernità, cioè del “modus hodiernus”. Le frontiere che gli occhiali di Google, o l’iWatch della Apple, si apprestano ad aprire sono ancora difficilmente prevedibili circa le abitudini capaci di generare. Ma in “abitudine” sta appunto uno dei tratti tipici di questi nuovi dispositivi: l’indossabilità. La realtà è aumentata in quanto sempre filtrata da un’intercapedine che aumenta le percezioni, le informazioni che abbiamo sul reale. Il mito dell’immediatezza è, appunto, un mito. La “wearable tecnology”, l’indossabilità, avanza come il necessario espediente per far sí che l’intercapedine – e la sua percezione – sia il piú prossima possibile ai nostri abiti, alle “abitudini”. La dimensione di questi nuovi scafandri è minima, intercetta i sensi, avvolge la vista (l’uomo bionico occidentale ha sviluppato, proprio in quanto occidentale, un’ipertelìa dello sguardo). Non è un caso, allora, se si parla di “immersione” (e di “tecnologie immersive”) per identificare tutti i sistemi che integrano virtualità e sensorialità nella realtà aumentata. Quanto lontani sembrano i tempi della semplice “realtà virtuale”, degli omicidi su “Second life”, delle soluzioni grafiche dei primi film anni Novanta che davano forma visuale a questi temi (ad esempio The Lawnmower Man, 1992). I problemi di pressione, e di “decompressione”, che afflissero tutta la pratica subacquea tra Ottocento e primo Novecento, li ritroveremo nel nostro presente-futuro rapporto dialettico tra immersione/emersione nella e dalla realtà aumentata. Se vent’anni fa la realtà virtuale veniva trattata come una specie di “droga”, il confine tra droga e “deroga” dal reale ora non appare piú praticabile, e quello tra realtà e realtà aumentata è ormai una pura questionare di lana caprina digitale, lontani anni luce dall’estetica Cyberpunk già pienamente realizzatasi e mimetizzata. Per ogni occhiale di Google che si prepara a risplendere a breve negli store, per ogni iWatch che attende l’apposito lancio in un keynote, già è pronto l’affacciarsi di un movimento neo-neo-neoluddista che proclami il ritorno necessario a uno stato naturale di “realtà diminuita”. M’iscrivo.


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