“Augmented
Reality” è la diciannovesima voce del Dizionario
controfattuale dell’innovazione di Matteo Pelliti. Un glossario incongruo fatto
di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza
delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle
coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che
non si voltano”. Uno stupidario puntuale come il mercoledí, tutti i mercoledí,
in collaborazione con Il Bureau.
L’espressione “realtà
aumentata” è presente da diversi anni nel dibattito dell’innovazione. Di
tanto in tanto, però, all’affacciarsi d’una nuova app o di un nuovo
dispositivo, la formula riappare come il ritrovato piú sintetico ed esemplificativo
della modernità, cioè del “modus hodiernus”. Le frontiere che gli occhiali di Google, o l’iWatch della Apple, si
apprestano ad aprire sono ancora difficilmente prevedibili circa le abitudini
capaci di generare. Ma in “abitudine” sta appunto uno dei tratti tipici di
questi nuovi dispositivi: l’indossabilità.
La realtà è aumentata in quanto sempre filtrata da un’intercapedine che aumenta
le percezioni, le informazioni che abbiamo sul reale. Il mito dell’immediatezza
è, appunto, un mito. La “wearable tecnology”, l’indossabilità, avanza come il
necessario espediente per far sí che l’intercapedine – e la sua percezione –
sia il piú prossima possibile ai nostri abiti, alle “abitudini”. La dimensione di questi nuovi scafandri è minima, intercetta i sensi, avvolge la vista (l’uomo
bionico occidentale ha sviluppato, proprio in quanto occidentale, un’ipertelìa
dello sguardo). Non è un caso, allora, se si parla di “immersione” (e di “tecnologie immersive”) per identificare tutti i
sistemi che integrano virtualità e sensorialità nella realtà aumentata. Quanto
lontani sembrano i tempi della semplice “realtà virtuale”, degli omicidi su “Second
life”, delle soluzioni grafiche dei primi film anni Novanta che davano forma
visuale a questi temi (ad esempio The Lawnmower Man, 1992). I problemi
di pressione, e di “decompressione”, che afflissero tutta la pratica subacquea
tra Ottocento e primo Novecento, li ritroveremo nel nostro presente-futuro rapporto dialettico tra
immersione/emersione nella e dalla realtà aumentata. Se vent’anni fa la
realtà virtuale veniva trattata come una specie di “droga”, il confine tra
droga e “deroga” dal reale ora non appare piú praticabile, e quello tra realtà
e realtà aumentata è ormai una pura questionare di lana caprina digitale, lontani anni luce dall’estetica Cyberpunk già
pienamente realizzatasi e mimetizzata. Per ogni occhiale di Google che si
prepara a risplendere a breve negli store, per ogni iWatch che attende l’apposito
lancio in un keynote, già è pronto l’affacciarsi di un movimento neo-neo-neoluddista che proclami il ritorno necessario a
uno stato naturale di “realtà diminuita”. M’iscrivo.
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