venerdì 15 marzo 2013

Mitologie urbane. Il mito della partecipazione


Tommaso Matano

Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.



Assopiti nella convinzione che far parte della massa volesse dire garantirsi un’esistenza tranquilla, al riparo dalle responsabilità, ci risvegliamo, oggi, umiliati e oltraggiati, colpiti nella nostra indifferenza.
Convocati a esprimerci, a parlare, a decidere, a giudicare, a sapere, forzati ad attivarci, chiamati all’improvviso a parlare di tutto, tutti.
Nella formula magica che tiene insieme rivoluzione informatica e paradigma sociologico – il duepuntozero – ci ritroviamo improvvisamente a fare i conti con una nuova responsabilità.
Ciò che Pasolini ci aveva insegnato della televisione, cioè la sua prepotenza, il suo parlare sempre ex cathedra, mitigato – potremmo aggiungere – solo dall’illusione democratica del televoto, si sfalda lentamente di fronte all’incalzante rivoluzione dei nuovi media.
Resti pure un baluardo dei tempi antichi, di una reazionaria visione del mondo, se la tengano pure, loro, la televisione.
Il cambio di paradigma che il web 2.0 e i suoi profeti annunciano con toni millenaristici è già in atto da anni: tutto ciò che è stato verticale, deve diventare orizzontale.

Non serviranno piú i giornali e le redazioni perché ci saranno wikileaks e i blogger.
Non servirà piú l’editoria perché ci saranno i siti di self-publishing.
Non serviranno piú gli intellettuali perché chiunque potrà curare una rubrica su un sito internet pretendendo di fornire chiavi di lettura sulla realtà.
Non serviranno piú i partiti perché ci saranno i movimenti.
Non serviranno piú i solidi perché tutto sarà liquido.
Il nuovo linguaggio non accetterà concetti monolitici ma significati posti in una rete, nuvole semantiche.
Ognuno potrà coniare il suo hashtag, dettare il passo, riformulare la grammatica. 
La rapidità con cui ci troveremo catapultati di spalle in questo inevitabile progresso, sospinti nel domani con lo sguardo ancora fisso sulle macerie del passato, verso un quadro di Klee o un saggio di Benjamin, ancora schiavi di un modo ormai finito di pensare, sarà tale da trasformare tutto il nostro tempo. Perfino quello verbale. E allora ciò che affideremo alla distanza sicura di un futuro semplice sarà in realtà già presente.
Se qualcuno non si sentirà pronto, non si sentirà in grado di prender parte a questa scalpitante chiamata alle armi delle coscienze, se qualcuno si rifiuterà di adeguarsi alla spontaneità di questo processo, che ci chiede la partecipazione per darci in cambio l’illusione del superuomo, allora sapremo che quel qualcuno sarà semplicemente un nemico già sconfitto, un mostro contro natura, un morto che parla.

In questo tempo in cui il nostro essere si fa carico della sua responsabilità di stare nel mondo, tutto deve divenire oggetto di una nostra decisione.
Stanchi della libertà massificata nel nostro individualismo (che brutta parola, la massa, cosí orrendamente solida!) intravediamo ora l’esigenza di un passo ulteriore: rendere i concetti stessi di pubblico e privato scorrevoli, cangianti, vivi, resuscitarli dalla loro mummificazione.
Si può intanto trasformare la logica che guida le nostre scelte private nell’unità di misura delle scelte pubbliche.
Non esistono piú gli esperti, ci sono solo opinioni di pari autorevolezza. Uno vale uno. Nel mondo piatto e orizzontale in cui finalmente si decide della propria vita, io voglio e devo pronunciarmi:

“Ascoltate ciò che ho da dire, mio pubblico, le mie opinioni appena masticate e già sputate. Non è piú tempo di digestioni.
Sono finite quelle inutili strutture che facevano da filtro, che gravavano pesanti, impedendoci di liberare la nostra forza primordiale e democratica; ora possiamo, finalmente, rivendicare la nostra singolare importanza.
Eravamo schiacciati, nella massa, stretti come granelli da un peso invincibile!
Guardate adesso invece, come scorriamo, come partecipiamo della liquidità!
Tutti parliamo, tutti scriviamo, tutti produciamo informazioni!
È rimasto qualcuno, dall’altra parte, a leggere e ad ascoltare?
Esiste ancora, un’altra parte, in una realtà orizzontale?”

Una delle prime conseguenze che scaturisce dalla rivoluzione partecipativa dei nuovi mezzi di comunicazione consiste dunque nel trasformare il pubblico in una mera estensione quantitativa del privato. Lo fanno gli eventi di facebook che storicizzano i nostri vissuti personali rendendoli presuntamente intersoggettivi e lo fa la retorica delle casalinghe al potere (rovesciamento anti-intellettualistico della Repubblica di Platone – che incarna del resto il vecchio sistema di potere dei partiti e della metafisica –).
Ma c’è dell’altro: la partecipazione cessa di essere semplice condizione di possibilità della libertà e diviene lo strumento che dà diritto all’esercizio di un potere nuovo. Un potere che è piuttosto una volontà di potenza.
La partecipazione ci illude di avere a disposizione una qualche forma di onniscienza, di onnipotenza. Una forza in continua espansione, vorace e infinitamente estendibile, una forza coniata a immagine e somiglianza del web, che ne è lo sfuggevole sostrato ontologico.
Il gesto del prender parte diviene allora sufficiente a decidere le proprie sorti e dunque, per incauta sineddoche, le sorti dell’umanità intera.
All’operazione de-costruzionista, post-modernista, post-strutturalista che disossa la complessità superfetata del reale, la rivoluzione orizzontale aggiunge il valore positivo della partecipazione.
La tecnologia ci mette in condizione di rendere questa partecipazione semplicissima: basta esprimere la propria opinione, non servono altre competenze.

La fatica del confronto tra persone non va piú in scena negli spazi della città. Spietata nella sua velocità, la rivoluzione partecipativa ci illude di star distruggendo il mostro della società alienante servendoci delle sue stesse forme degenerate: gli slogan, i titoli cubitali, il bombardamento di informazioni, e una rete confusa di altre mitologie e mistificazioni che si inseguono come in un nastro di Möbius (l’esempio piú eclatante: confondere gli ordini di grandezza, offrire risposte in termini di milioni a problemi in termini di miliardi).

La rivoluzione partecipativa non si limita a opporre alla complessità del reale una visione semplicistica.
Fa di più: denuncia la complessità come illusione architettata ad arte per ingannarci, per celare il potenziale che il presente nasconde. Dice cioè che questo momento di difficile crisi è in realtà l’occasione per un riscatto che può avvenire con la massima facilità.
L’individuo della massa può finalmente affermarsi: non deve sgomitare per emergere, fare i conti con la realtà storica, con il contesto sociale. La tecnologia gli offre un campo da gioco piatto.
Gli chiede solo di muovercisi sopra, non importa come.
La portata etica di questo riassestamento valoriale è enorme.

Un esempio forte è il progetto The cure/La cura, in cui Salvatore Iaconesi invita il popolo della rete ad aiutarlo nell’affrontare la sua malattia, mettendo a disposizione i suoi dati clinici online, con l’intento di sviluppare una cura open source, creando un database di diagnosi, referti, terapie fruibili da tutti in tutto il mondo. Al di là della portata estetica dell’evento, che sembra nelle forme grafiche il lancio di un nuovo serial televisivo e che nasconde invece il vissuto personale di un cancro al cervello – e del resto le forme della nostra sensibilità dovranno abituarsi a questo tipo di riorganizzazione –, l’aspetto piú interessante è che nell’appello di The cure viene detto che chiunque può partecipare alla cura. È sufficiente inviare un pensiero, un disegno, una fotografia. Non solo i medici sono coinvolti, tutti possono avere una funzione terapeutica, contribuire a salvare il prossimo, ognuno con i propri strumenti, in un modo ridicolmente immediato, senza il minimo sforzo, nemmeno emotivo. In fondo per quanto ci si possa appassionare alla storia di Iaconesi, per noi semplici utenti della Rete resterà sempre uno sconosciuto.
Mai avremmo pensato che appagare il nostro bisogno di fare del bene potesse essere cosí semplice.
Iaconesi ci fa dono della sua malattia, del suo vissuto personale, trasformando il suo privato in pubblico.
Esser chiamati a partecipare di qualcosa di cosí intimo e complesso come una malattia, in un modo tanto semplice, spalanca di fronte al nostro potere un orizzonte impensabile.
Oggi chiunque di noi, attraverso il proprio computer, può aiutare a curare un cancro.

Se il risultato di questa ristrutturazione della nostra esperienza di individui nella società, sarà pulire i filtri effettivamente sporchi di quelle strutture che fanno da filtro, o se invece ci aspetterà un esito piú radicale, immaginabile solo per le parole profetiche che lo annunciano, si vedrà.

Senz’altro l’esigenza di prender parte alle cose, di esprimerci attraverso flash mob, di immergerci in questa realtà orizzontale, piena di occasioni, finalmente coinvolti in prima persona, qui dove tutto è a portata di mano – anche la scienza e la verità –, questa esigenza, questo diritto/dovere, cela il rischio di consegnarci alla superficialità.

Perché la partecipazione invita alla prossimità, ma il comprendere reclama la distanza.

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