Tommaso Matano
Mitologie urbane è un osservatorio
sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare
sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In
collaborazione con Il Bureau.
Assopiti nella convinzione che far
parte della massa volesse dire garantirsi un’esistenza tranquilla, al riparo dalle responsabilità, ci risvegliamo,
oggi, umiliati e oltraggiati, colpiti nella nostra indifferenza.
Convocati
a esprimerci, a parlare, a decidere, a giudicare, a sapere, forzati ad
attivarci, chiamati all’improvviso a parlare di tutto, tutti.
Nella
formula magica che tiene insieme rivoluzione informatica e paradigma
sociologico – il duepuntozero – ci ritroviamo improvvisamente a fare i conti
con una nuova responsabilità.
Ciò
che Pasolini ci aveva insegnato della televisione, cioè la sua prepotenza, il
suo parlare sempre ex cathedra, mitigato – potremmo aggiungere
– solo dall’illusione democratica del televoto, si sfalda lentamente di fronte
all’incalzante rivoluzione dei nuovi media.
Resti
pure un baluardo dei tempi antichi, di una reazionaria visione del mondo, se la
tengano pure, loro, la televisione.
Il
cambio di paradigma che il web 2.0 e i suoi profeti annunciano con toni
millenaristici è già in atto da anni: tutto
ciò che è stato verticale, deve diventare orizzontale.
Non serviranno piú i giornali e le redazioni perché ci saranno
wikileaks e i blogger.
Non servirà piú l’editoria perché ci saranno i siti di self-publishing.
Non serviranno piú gli intellettuali perché chiunque potrà curare
una rubrica su un sito internet pretendendo di fornire chiavi di lettura sulla
realtà.
Non serviranno piú i partiti perché ci saranno i movimenti.
Non serviranno piú i solidi perché tutto sarà liquido.
Il
nuovo linguaggio non accetterà concetti monolitici ma significati posti in una
rete, nuvole semantiche.
Ognuno
potrà coniare il suo hashtag, dettare il passo, riformulare la grammatica.
La
rapidità con cui ci troveremo catapultati di spalle in questo inevitabile
progresso, sospinti nel domani con lo
sguardo ancora fisso sulle macerie del passato, verso un quadro di Klee o
un saggio di Benjamin, ancora schiavi di un modo ormai finito di pensare, sarà
tale da trasformare tutto il nostro tempo. Perfino quello verbale. E allora ciò
che affideremo alla distanza sicura di un futuro semplice sarà in realtà già
presente.
Se qualcuno non si sentirà pronto, non si sentirà in grado di prender parte a questa
scalpitante chiamata alle armi delle coscienze, se qualcuno si rifiuterà di
adeguarsi alla spontaneità di questo processo, che ci chiede la partecipazione
per darci in cambio l’illusione del superuomo, allora sapremo che quel qualcuno
sarà semplicemente un nemico già sconfitto, un mostro contro natura, un morto che parla.
In
questo tempo in cui il nostro essere si fa carico della sua responsabilità di
stare nel mondo, tutto deve divenire
oggetto di una nostra decisione.
Stanchi
della libertà massificata nel nostro individualismo (che brutta parola, la massa, cosí orrendamente solida!) intravediamo ora l’esigenza di un passo
ulteriore: rendere i concetti stessi di pubblico
e privato scorrevoli, cangianti,
vivi, resuscitarli dalla loro mummificazione.
Si
può intanto trasformare la logica che guida le nostre scelte private nell’unità
di misura delle scelte pubbliche.
Non esistono piú gli esperti, ci sono
solo opinioni di pari autorevolezza. Uno
vale uno. Nel mondo piatto e
orizzontale in cui finalmente si decide della propria vita, io voglio e devo
pronunciarmi:
“Ascoltate
ciò che ho da dire, mio pubblico, le mie opinioni appena masticate e già
sputate. Non è piú tempo di digestioni.
Sono
finite quelle inutili strutture che facevano da filtro, che gravavano pesanti,
impedendoci di liberare la nostra forza primordiale e democratica; ora
possiamo, finalmente, rivendicare la nostra singolare importanza.
Eravamo
schiacciati, nella massa, stretti come granelli da un peso invincibile!
Guardate
adesso invece, come scorriamo, come partecipiamo della liquidità!
Tutti
parliamo, tutti scriviamo, tutti produciamo informazioni!
È rimasto qualcuno, dall’altra parte,
a leggere e ad ascoltare?
Esiste
ancora, un’altra parte, in una realtà
orizzontale?”
Una
delle prime conseguenze che scaturisce dalla rivoluzione partecipativa dei
nuovi mezzi di comunicazione consiste dunque nel trasformare il pubblico in
una mera estensione quantitativa del privato.
Lo fanno gli eventi di facebook che storicizzano i nostri vissuti personali
rendendoli presuntamente intersoggettivi e lo fa la retorica delle casalinghe
al potere (rovesciamento anti-intellettualistico della Repubblica di Platone – che incarna del resto il vecchio sistema di
potere dei partiti e della metafisica –).
Ma
c’è dell’altro: la partecipazione cessa di essere semplice condizione di
possibilità della libertà e diviene lo strumento che dà diritto all’esercizio
di un potere nuovo. Un potere che è
piuttosto una volontà di potenza.
La
partecipazione ci illude di avere a disposizione una qualche forma di
onniscienza, di onnipotenza. Una forza in continua espansione, vorace e
infinitamente estendibile, una forza coniata a immagine e somiglianza del web,
che ne è lo sfuggevole sostrato ontologico.
Il
gesto del prender parte diviene
allora sufficiente a decidere le proprie sorti e dunque, per incauta sineddoche,
le sorti dell’umanità intera.
All’operazione
de-costruzionista, post-modernista, post-strutturalista che disossa la
complessità superfetata del reale, la rivoluzione orizzontale aggiunge il valore
positivo della partecipazione.
La
tecnologia ci mette in condizione di rendere questa partecipazione
semplicissima: basta esprimere la propria opinione, non servono altre
competenze.
La fatica del confronto tra persone
non va piú in scena negli spazi della città. Spietata nella sua velocità, la rivoluzione partecipativa ci illude
di star distruggendo il mostro della società alienante servendoci delle sue
stesse forme degenerate: gli slogan, i titoli cubitali, il bombardamento di
informazioni, e una rete confusa di altre mitologie e mistificazioni che si
inseguono come in un nastro di Möbius (l’esempio
piú eclatante: confondere gli ordini di grandezza, offrire risposte in termini
di milioni a problemi in termini di miliardi).
La rivoluzione partecipativa non si limita a opporre alla complessità del reale
una visione semplicistica.
Fa
di più: denuncia la complessità come
illusione architettata ad arte per ingannarci, per celare il potenziale che il
presente nasconde. Dice cioè che questo momento di difficile crisi è in
realtà l’occasione per un riscatto che può avvenire con la massima facilità.
L’individuo
della massa può finalmente affermarsi: non deve sgomitare per emergere, fare i
conti con la realtà storica, con il contesto sociale. La tecnologia gli offre
un campo da gioco piatto.
Gli
chiede solo di muovercisi sopra, non importa come.
La
portata etica di questo riassestamento valoriale è enorme.
Un
esempio forte è il progetto The cure/La cura, in cui Salvatore Iaconesi invita il popolo della rete ad aiutarlo
nell’affrontare la sua malattia, mettendo a disposizione i suoi dati clinici
online, con l’intento di sviluppare una cura open source, creando un database di diagnosi, referti, terapie
fruibili da tutti in tutto il mondo. Al di là della portata estetica dell’evento,
che sembra nelle forme grafiche il lancio di un nuovo serial televisivo e che
nasconde invece il vissuto personale di un cancro
al cervello – e del resto le forme della nostra sensibilità dovranno
abituarsi a questo tipo di riorganizzazione –, l’aspetto piú interessante è che
nell’appello di The cure viene detto
che chiunque può partecipare alla
cura. È sufficiente inviare un pensiero, un disegno, una fotografia. Non solo i
medici sono coinvolti, tutti possono avere
una funzione terapeutica, contribuire a salvare il prossimo, ognuno con i
propri strumenti, in un modo ridicolmente immediato, senza il minimo sforzo,
nemmeno emotivo. In fondo per quanto ci si possa appassionare alla storia di
Iaconesi, per noi semplici utenti della Rete resterà sempre uno sconosciuto.
Mai
avremmo pensato che appagare il nostro bisogno di fare del bene potesse essere
cosí semplice.
Iaconesi
ci fa dono della sua malattia, del suo vissuto personale, trasformando il suo privato in pubblico.
Esser
chiamati a partecipare di qualcosa di cosí intimo e complesso come una
malattia, in un modo tanto semplice, spalanca di fronte al nostro potere un
orizzonte impensabile.
Oggi chiunque di noi, attraverso il
proprio computer, può aiutare a
curare un cancro.
Se
il risultato di questa ristrutturazione della nostra esperienza di individui
nella società, sarà pulire i filtri effettivamente sporchi di quelle strutture
che fanno da filtro, o se invece ci aspetterà un esito piú radicale,
immaginabile solo per le parole profetiche che lo annunciano, si vedrà.
Senz’altro
l’esigenza di prender parte alle cose, di esprimerci attraverso flash mob, di
immergerci in questa realtà orizzontale, piena di occasioni, finalmente
coinvolti in prima persona, qui dove tutto è a portata di mano – anche la scienza e la verità –, questa
esigenza, questo diritto/dovere, cela il rischio di consegnarci alla
superficialità.
Perché
la partecipazione invita alla prossimità,
ma il comprendere reclama la distanza.
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