La tradizione utopica pensa la città come concretizzazione di un ideale. La rappresentazione della città
è il risultato di una volontà di plasmare
l’ambiente, fisico e sociale. Proietta sullo spazio urbano una natura filosofica, lo
modella adottando l’uomo (una precisa idea dell’uomo) come misura. L’urbanista
e l’utopista, l’architetto e il legislatore si muovono in spazi contigui,
quando non sovrapposti. Il progetto urbanistico è il simbolo di una volontà di
trasformazione e riorganizzazione. È una lotta contro le cose, contro l’inerzia
che domina tanto la materia quanto gli uomini. Per l’urbanista utopico la città è una riduzione in scala
del cosmo, o una riproduzione spaziale dell’immagine dell’uomo. La metafora
antropomorfa è una costante che durante il Rinascimento accomuna trattati
architettonici, testi utopici e rappresentazioni cartografiche. Johann Putsch
nel 1537 mappa l’Europa seguendo i contorni di un corpo femminile: una carta
che è l’eco grafica della città antropomorfa immaginata da Francesco di Giorgio Martini nei suoi Trattati (1492). L’uomo nel cerchio di Vitruvio offre lo
schema di base per una topografia antropometrica. A margine dei testi di
Vitruvio l’umanesimo sviluppa la sua riflessione sulle origini stesse della
civiltà, sui fondamenti che organizzano il vivere civile dell’uomo.
Lo
scultore inglese Antony Gormley ha
compenetrato lo spazio urbano di San Gimignano dislocando le sue forme nelle
pieghe della città. Ha rovesciato la prospettiva rinascimentale immaginando un uomo a forma di città. L’opera che dà il titolo a questa “esposizione diffusa” (ma esposizione in senso letterale, non solo mostra: collocazione di oggeti in uno spazio aperto, non protetto), Vettel, introduce nella città
antropomorfa l’uomo urbanomorfo,
composto da trentanove parallelepipedi d’acciaio sovrapposti. Dopo tante città che
si presumono, e spesso non sono, a misura d’uomo, lo scultore inglese estende l’uomo
sulla misura della città. Gormley costringe l’osservatore a misurare con la
propria presenza le relazioni spaziali tra
il corpo e l’ambiente. La trasfigurazione dell’uomo in modello urbano è un
modo di ripensare dall’interno il concetto di abitabilità e le forme di
organizzazione sociale. La costruzione architettonica del corpo segnala una
continuità tra l’intervento urbanistico e le dinamiche dell’esistenza
individuale. Nella città utopica l’uomo è unità di misura, ma non sempre individuo.
La modellizzazione antropomorfa contribuisce a un discioglimento dell’individuo
nel corpo sociale. La programmazione razionalistica dello spazio urbano si
fonda su un livellamento egualitario che vuole prevenire gli scarti e le
affermazioni singole. L’irriducibile dell’individuo è assorbito all’interno
di un’armonia preordinata. L’anomalia “curata” statisticamente come una forma
patologica della città-organismo, o come un guasto nella città-macchina.
Ricondurre la dimensione urbana all’uomo non come misura ideale, ma come
individuo, riabilita l’irriducibile, fonda la progettazione sulla scarto. L’anomalia stessa è il progetto. Lo
studio della molteplicità dei casi singoli è una assunzione della complessità. L’uomo
urbano di Gormley avverte che non si può fare tabula rasa, non si può progettare in astratto, come se lo spazio
fosse un foglio bianco. I segni intervengono sempre su tessuti stratificati,
incidono corpi che resistono. Nel
tempo presente affiorano i tempi lunghi della memoria. Le pratiche, i
movimenti, i flussi contemporanei si innestano su gesti conosciuti da sempre, i
materiali del nuovo rivestono e attraversano ossature antiche. Gormley non
disegna una mappa aerea, perfettamente congegnata dall’alto. I punti dello spazio,
gli individui, le insorgenze, gli ostacoli si incontrano procedendo, uno dopo
l’altro, improvvisamente, e si superano uno dopo l’altro, con soluzioni sempre diverse, con applicazioni momentanee e irripetibili
dell’intelligenza.
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