mercoledì 20 giugno 2012

L’uomo a misura di città



La tradizione utopica pensa la città come concretizzazione di un ideale. La rappresentazione della città è il risultato di una volontà di plasmare l’ambiente, fisico e sociale. Proietta sullo spazio urbano una natura filosofica, lo modella adottando l’uomo (una precisa idea dell’uomo) come misura. L’urbanista e l’utopista, l’architetto e il legislatore si muovono in spazi contigui, quando non sovrapposti. Il progetto urbanistico è il simbolo di una volontà di trasformazione e riorganizzazione. È una lotta contro le cose, contro l’inerzia che domina tanto la materia quanto gli uomini. Per l’urbanista utopico la città è una riduzione in scala del cosmo, o una riproduzione spaziale dell’immagine dell’uomo. La metafora antropomorfa è una costante che durante il Rinascimento accomuna trattati architettonici, testi utopici e rappresentazioni cartografiche. Johann Putsch nel 1537 mappa l’Europa seguendo i contorni di un corpo femminile: una carta che è l’eco grafica della città antropomorfa immaginata da Francesco di Giorgio Martini nei suoi Trattati (1492). L’uomo nel cerchio di Vitruvio offre lo schema di base per una topografia antropometrica. A margine dei testi di Vitruvio l’umanesimo sviluppa la sua riflessione sulle origini stesse della civiltà, sui fondamenti che organizzano il vivere civile dell’uomo.

Lo scultore inglese Antony Gormley ha compenetrato lo spazio urbano di San Gimignano dislocando le sue forme nelle pieghe della città. Ha rovesciato la prospettiva rinascimentale immaginando un uomo a forma di città. L’opera che dà il titolo a questa “esposizione diffusa” (ma esposizione in senso letterale, non solo mostra: collocazione di oggeti in uno spazio aperto, non protetto), Vettel, introduce nella città antropomorfa l’uomo urbanomorfo, composto da trentanove parallelepipedi d’acciaio sovrapposti. Dopo tante città che si presumono, e spesso non sono, a misura d’uomo, lo scultore inglese estende l’uomo sulla misura della città. Gormley costringe l’osservatore a misurare con la propria presenza le relazioni spaziali tra il corpo e l’ambiente. La trasfigurazione dell’uomo in modello urbano è un modo di ripensare dall’interno il concetto di abitabilità e le forme di organizzazione sociale. La costruzione architettonica del corpo segnala una continuità tra l’intervento urbanistico e le dinamiche dell’esistenza individuale. Nella città utopica l’uomo è unità di misura, ma non sempre individuo. La modellizzazione antropomorfa contribuisce a un discioglimento dell’individuo nel corpo sociale. La programmazione razionalistica dello spazio urbano si fonda su un livellamento egualitario che vuole prevenire gli scarti e le affermazioni singole. L’irriducibile dell’individuo è assorbito all’interno di un’armonia preordinata. L’anomalia “curata” statisticamente come una forma patologica della città-organismo, o come un guasto nella città-macchina. 

Ricondurre la dimensione urbana all’uomo non come misura ideale, ma come individuo, riabilita l’irriducibile, fonda la progettazione sulla scarto. L’anomalia stessa è il progetto. Lo studio della molteplicità dei casi singoli è una assunzione della complessità. L’uomo urbano di Gormley avverte che non si può fare tabula rasa, non si può progettare in astratto, come se lo spazio fosse un foglio bianco. I segni intervengono sempre su tessuti stratificati, incidono corpi che resistono. Nel tempo presente affiorano i tempi lunghi della memoria. Le pratiche, i movimenti, i flussi contemporanei si innestano su gesti conosciuti da sempre, i materiali del nuovo rivestono e attraversano ossature antiche. Gormley non disegna una mappa aerea, perfettamente congegnata dall’alto. I punti dello spazio, gli individui, le insorgenze, gli ostacoli si incontrano procedendo, uno dopo l’altro, improvvisamente, e si superano uno dopo l’altro, con soluzioni sempre diverse, con applicazioni momentanee e irripetibili dell’intelligenza.

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