“Quando la fabbrica è ferma i problemi della tecnica,
le macchine, spariscono. Il problema
fondamentale dell’uomo diventa piú chiaro. E quello è il problema che mi
prende quando sono nella fabbrica chiusa, nella fabbrica ferma.”
Adriano Olivetti sostava spesso nei suoi stabilimenti
vuoti a meditare sull’unico elemento del lavoro non scientificamente
programmabile: l’uomo. Come si legge nell’intervista rilasciata per la Rai a
Emilio Garroni nel 1960, della quale oggi “la Repubblica” ripropone un
estratto. “Per molti anni questo problema di conciliare l’uomo e la macchina,
cosí, mi ha affaticato. Mi sono persuaso che non esiste una ricetta, non esiste
un ordine assoluto. Dovremmo cosí cercare di capire la questione fondamentale
che è quella del rapporto dell’uomo con
la fabbrica, dentro la fabbrica e fuori dalla fabbrica.”
La Fondazione Bottari Lattes, in collaborazione con la
Fondazione Olivetti, ha organizzato per il 13 giugno al Teatro Vittoria di
Torino il convegno La Fabbrica al tempo di Adriano Olivetti.
Un’occasione per ragionare sulla crisi che attraversa la cultura del lavoro. In
un momento in cui i sistemi economici si stanno profondamente ristrutturando,
l’inquietudine umanistica di
Olivetti torna a porre domande essenziali sui principi di organizzazione del
lavoro e della produzione. Domande che saranno riformulate attraverso un
programma di interventi singoli e una tavola rotonda, cui parteciperanno tra
gli altri il sindaco di Torino Piero Fassino, lo scrittore e saggista Giuseppe
Lupo, il sociologo Luciano Gallino, Laura Olivetti, gli storici Piero
Bevilacqua, Valerio Castronovo e Miguel Gotor, il giornalista Furio Colombo. I
lavori saranno coordinati da Paolo Mauri, che ha ideato l’evento insieme a
Caterina Bottari Lattes, e da Bruno Quaranta.
“Dedicare una giornata ad Adriano Olivetti e alla sua
fabbrica – si legge nella presentazione dell’iniziativa – significa
innanzitutto ribadire che un progetto originale e articolato come il suo è
ancora perfettamente attuale,
soprattutto se si riflette sulla portata di quel progetto, teso a incidere sul
territorio, sui servizi, sull’urbanistica, sulla cultura in generale e sulla tutela materiale e psicologica degli
individui coinvolti. Il convegno vuole sottolineare il valore umanistico
dell’iniziativa e promuovere la difesa di un patrimonio inalienabile, raggiunto
a prezzo di lotte ormai secolari e oggi da molte parti minacciato: la dignità
del lavoro.”
Proprio intorno all’attualità del pensiero di Adriano
Olivetti dialogano Andrea Granelli e
Giulio Sapelli in un post scriptum al libro Artigiani del digitale. Come creare valore con le nuove
tecnologie.
La matrice culturale dell’imprenditoria olivettiana è
artigianale in quanto muove da uno studio dell’uomo, delle sue esigenze, delle
sue possibilità di espressione. Dice Sapelli: “Adriano Olivetti era ossessionato dall’uomo in quanto persona,
dalla sua forza – spesso inespressa –, dai suoi bisogni. Le sue letture sul
personalismo, il suo pensiero fortemente religioso, il suo interesse per la
psicologia e la psicoanalisi, avevano messo l’uomo al centro dei suoi pensieri
e della sua agenda di imprenditore – e poi di politico. La tecnologia doveva essere un modo per liberare l’uomo.”
La macchina da scrivere, l’oggetto che condensa il
significato del progetto imprenditoriale di Olivetti, è percepita come un
prodotto artigianale, quasi una sequenza di pezzi unici: “una macchina che si vende una per una a tante persone diverse”, si
legge nell’intervista del 1960. La “Civiltà delle macchine” immaginata da
Olivetti, e prefigurata attraverso la rivista diretta dall’ingegnere-poeta
Leonardo Sinisgalli, si declinava nel segno di una sensibilità artigiana per i dettagli e per la qualità. “Io non amo
le macchine come Oggetti”, diceva Sinisgalli, “le amo come Congegni”.
All’alba dell’industrializzazione gli operai
specializzati costruivano i propri strumenti, che permettevano di individualizzare l’organizzazione del
lavoro. L’irrompere della produzione di massa ha imposto strumenti e
procedimenti standardizzati, che hanno aumentato la fatica e l’alienazione,
introducendo un conflitto tra il tempo
dell’uomo e il tempo della macchina.
I modi di produzione del digitale rendono molto
frequente che i programmatori si costruiscano i propri utensili, programmi e
applicazioni che personalizzano le procedure e ritagliano il lavoro sulle
esigenze individuali. L’artigianato digitale sembra quasi un’imprevista
possibilità di realizzazione del sogno visionario di Olivetti: macchine che, anziché soggiogare l’uomo, si
adattano ai suoi bisogni.
Olivetti aveva visto la componente irrazionale del
lavoro, resa evidente dalla fatica spesso inutile. Razionalizzare il lavoro
significava ridurre la fatica superflua e umanizzare
il contributo degli individui al prodotto finale. Il taylorismo di Olivetti
non era uno strumento del padrone per rendere efficiente la produzione, ma un
aiuto agli operai per ridurre la loro fatica e migliorare la qualità del tempo
lavorativo.
L’uomo cui pensava Olivetti nel silenzio della
fabbrica vuota era principalmente l’operaio, perché era nel lavoro in fabbrica
il vero rischio dell’alienazione tecnologica. Col tramonto dei modelli economici fordisti e tayloristi è l’utilizzatore che rischia di essere manipolato, alienato, trasformato dalle tecnologie – soprattutto quelle digitali – ogni giorno piú potenti e pervasive.
Il problema dell’uomo, allora, va
pensato oggi da un punto di vista complementare rispetto a quello che impegnava
Olivetti. Olivetti temeva che l’impiego massiccio della tecnologia in fabbrica
potesse isolare, distruggere la coesione sociale. Ma oggi la comunità, uno dei concetti fondamentali
del pensiero olivettiano, è aggredita dal versante del consumo, piú che da
quello della produzione. E i rischi impliciti nell’intuizione di Olivetti si
dispiegano con potente evidenza. Eppure i sintomi di disgregazione delle
istituzioni sociali tradizionali vanno affrontati senza dimenticare un altro
fondamentale insegnamento olivettiano: la
tecnica può generare contemporaneamente i mali e gli antidoti, i problemi e le
soluzioni. Esistono, e vanno individuate e valorizzate, potenzialità di
ricomposizione della comunità e di riposizionamento dell’uomo implicite nelle
reti sociali e nei sistemi di organizzazione e di relazione che le strutturano.
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