Nel
1984 il critico Giulio Carlo Argan, dopo essere stato per tre anni, dal 1976 al
1979, sindaco di Roma, raccoglie una serie di saggi sulle relazioni tra l’arte
e i contesti urbani in un libro dal titolo Storia dell’arte come storia della città. Presentando la raccolta Bruno Contardi
scrive: “Dalla distinzione di uno
spazio, di una forma urbana discende, si genera l’arte, che a sua volta
permette di distinguere, di separare: intimamente connessa, quindi, con la città,
di cui altro non è che la complessa epifania, il fenomenizzarsi”. La
costruzione di una città è il risultato di una techné il cui modello è il processo che realizza l’opera d’arte. I prodotti artistici qualificano una città,
le consegnano un’identità che si incide nell’immaginario: a partire dal
Medioevo, “si riconoscerebbe la città senza quegli straordinari segni urbani
che sono le cattedrali e, piú tardi, senza il monumento che, della città, e della sua storicità, è la piú
compiuta rappresentazione?”
L’arte
nella visione di Argan nasce in una dimensione pubblica, si afferma come estremo
perfezionamento dei saperi di una
comunità. Per questo “appare come un’attività tipicamente urbana: e non
soltanto inerente, ma costitutiva della città, che infatti è stata considerata
per molto tempo [...] l’opera d’arte per
antonomasia”. Il significato delle emergenze storiche di una città “consisteva
nel fatto che erano là, nella loro realtà fisica, e non già come memorie o
segni del passato, ma come un passato
rimasto presente, una storia fatta spazio o ambiente concreto della vita.” Dentro
la città tutta l’arte è arte contemporanea, perché è una riattivazione del
passato nel presente, e aggiunge valore agli atti della vita quotidiana della
comunità cittadina.
La
città, del resto, non è soltanto quanto è racchiuso dal perimetro delle sue
mura, o l’insieme delle sue funzioni istituzionali. Lo spazio urbano è fatto di
tutto quanto contribuisce a costruire significati,
gli elementi materiali e immateriali, le relazioni, gli eventi, le influenze, i
rapporti di forza, i flussi che attraversano i luoghi. Lo spazio urbano “non è
fatto soltanto di quello che si vede, ma d’infinite cose che si sanno e
ricordano, di notizie. Perfino quando un pittore dipinge un paesaggio naturale,
dipinge in realtà uno spazio complementare del proprio spazio urbano”. La città
si estende oltre le cose, gli edifici, gli individui che contiene, e diventa un’ipotesi di senso, “l’immagine
mentale che ciascuno si fa dello spazio della vita e che, per il medesimo fondo
d’esperienza, è la stessa, salvo piccole differenze specifiche, per tutti gli
individui dello stesso gruppo.”
La
città è una piattaforma che rende
possibile l’arte, non soltanto un contenitore di prodotti artistici. Organizzando
gli oggetti culturali che la compongono la
città diventa essa stessa un’opera
d’arte. “La città è intrinsecamente artistica”, scrive Argan: concependola
come un’opera unitaria si sta già progettando una città ideale. Ma la città ideale è una tensione che “esiste sempre
dentro o sotto la città reale”, e rappresenta
“un punto di riferimento rispetto al quale si misurano i problemi della città
reale: la quale può senza dubbio concepirsi come un’opera d’arte che nel corso
della sua esistenza ha subito modifiche, alterazioni, aggiunte, diminuzioni,
deformazioni, talvolta vere e proprie crisi distruttive”. Se la città ideale è
una costruzione mentale, un’astrazione, che spazializza il pensiero e visualizza
i concetti, la città reale “riflette le difficoltà del fare l’arte e le
contrastate circostanze del mondo in cui si fa.” Alla città ideale è riservato un trattamento qualitativo, mentre la
città reale è pressata dal problema della quantità. Proprio l’antitesi tra
qualità e quantità, che ha sostituito il rapporto proporzionale, genera i piú gravi
problemi dell’urbanistica moderna.
Isolare
il centro storico come luogo della
qualità assoluta determina squilibri che, mentre scaricano tutte le criticità
quantitative sulla città vivente, condannano la città storica alla necrosi. Una conservazione che non
include la funzionalità schiaccia la città moderna su un tempo piatto, senza
profondità, e contemporaneamente esilia la città antica dal presente. La pianificazione
urbana deve pensare uno sviluppo
organico e coerente della città, coordinando e integrando le funzioni delle
zone antiche e delle zone moderne. L’arte ha il compito di attivare entro gli
spazi della città la dinamica storica che rende presente il passato proprio
attraverso la presenza parlante dei segni
della memoria. La città, come l’arte, è un processo, una pratica
permanente, qualcosa che si fa qui e ora. Città e arte condividono questa
dimensione del fare all’interno della quale si scambiano soluzioni tecniche e concettuali, in una attribuzione continua, e
reciproca, di significati.
“Le
tecniche urbane” scrive Argan
descrivendo questo intreccio di saperi, “che hanno i loro vertici in quella che
fu chiamata l’arte e separata dall’artigianato come suo apice e modello,
costituiscono un sistema organico collegato con quello dell’economia e della
struttura sociale; queste tecniche, che all’opposto di quelle agricole mutano
nei tempi brevi, riflettono una competizione
e una volontà di superamento che sono tipiche delle economie intense,
come l’urbana. Non dimentichiamo che in tutta questa fase storica, e specialmente
nel Rinascimento, si è ammesso che il progresso delle tecniche urbane, a
differenza della lenta mutazione delle tecniche contadine, avvenisse per successive invenzioni, cioè attraverso
lo stesso processo mentale che veniva considerato caratteristico dell’arte.”
Attraverso
l’arte la città assimila la mutazione
delle tecniche, collocandola dentro un sistema che include l’economia e le
strutture sociali. L’arte allestisce all’interno della città un laboratorio di invenzione che ha un
rapporto osmotico con il contesto urbano. Mentre indaga, critica, descrive lo
spazio della città, l’arte lo modifica e ne è modificata.