Tommaso Matano
Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi
narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti
sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.
“Non
possiamo quindi esperire veramente il nostro rapporto con l’essenza della
tecnica finché ci limitiamo a rappresentarci la tecnicità e a praticarla, a
rassegnarci ad essa o a fuggirla. Restiamo sempre prigionieri della tecnica e
incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo
con veemenza.”
Martin
Heidegger, La questione della tecnica
Cominciamo dai dati, anche se Wilfrid Sellars avrebbe qualcosa da
ridire in proposito (è sua la formula “il mito del dato” in Empirismo e filosofia della mente).
I
dati ci dicono che il mercato dell’e-commerce
in Europa è in forte ascesa. L’Italia, anche grazie allo sviluppo di Amazon.it,
ha visto lo shopping online crescere nel 2011 del 32%. (Si è parlato recentemente
di Amazon.it in una puntata di Report, che ha sollevato dubbi sulla liceità
della politica fiscale della società).
Si
stima che entro il 2015 il 50% della popolazione europea effettuerà acquisti
online. I settori che fatturano di piú sono il tempo libero (perlopiú il gioco
d’azzardo) e il turismo.
L’e-commerce permette al produttore di
vendere direttamente al consumatore, offrendo fra l’altro prezzi piú
vantaggiosi, nonostante la spesa per la spedizione del prodotto. Gli studi sul couch commerce (acquisto online “dal divano”,
cioè nel tempo libero) dimostrano
come l’e-commerce si stia
progressivamente sostituendo allo shopping vecchia maniera: si acquistano su
internet non solo prodotti rari o specifici, ma perfino la spesa alimentare.
I
rivenditori online, cosí, fronteggiano brillantemente la crisi, divenendo
motore economico e creando posti di lavoro.
La
rapidità, la comodità e l’immediatezza del servizio sembrerebbero
irresistibili.
Ma laddove l’e-commerce incrementa, altrove sottrae.
Si
potrebbe identificare una linea di continuità in quel processo che colpisce i piccoli
esercizi commerciali, prima gettati in pasto alla globalizzazione e alla grande
industria, e ora anche al mercato online.
Le
città hanno rinunciato da tempo e progressivamente alla loro dimensione
commensurabile, fatta di pratiche comuni e interazioni sociali consolidate, nel
nome della forza trascinante dell’ipermercato, della grande libreria, del
centro commerciale.
Cosa
cambia quando le abitudini della spesa ci portano verso un luogo che non è piú
fisico?
Cosa
succede a una città che non ha piú bisogno di negozi?
Per le sue modalità, l’acquisto
online si appella a un metodo che esige il massimo del rigore.
La
lista della spesa, da supporto mnemonico, diviene ordine vincolante.
Comprare
su internet richiede di progettare con precisione cosa si vuole acquistare: c’è
pochissimo spazio per lasciarsi suggestionare dal girovagare all’interno dell’esercizio
commerciale (uno spazio ancora preservato dall’advertising e dai consigli intelligenti
per gli acquisti che fanno capolino sui siti internet).
In
linea con il principio d’economia che genericamente accompagna l’utilizzo della
tecnologia, anche l’e-commerce, come
fa il navigatore satellitare che indica il percorso da seguire senza perdite di
tempo, pretende da noi la precisione per darci in cambio l’efficienza.
Immediatezza e accessibilità delle
merci acquistabili, risorse
enormi, fra l’altro, per i diversamente abili, veicolano un importante aspetto
estetico, inerente il nostro modo di fare esperienza: l’e-commerce chiama in causa la nostra immaginazione. Ogni volta che
stiamo per comprare un prodotto ci è richiesto di figurarci, aiutati da
fotografie e informazioni, di cosa si tratti. Lo spessore di un libro lo
deduciamo dal numero di pagine, la comodità di un articolo d’abbigliamento da
una serie di ipotesi complesse e sommarie svolte a partire da alcuni dati.
Comprare
qualcosa che non possiamo percepire ci richiede di rappresentarcelo.
E questo,
in un processo di accomodamento alle nostre esigenze, è un rischio.
Noi acquistiamo (e la cosa richiederebbe di avere ben in
mente ciò che vogliamo) quel che ancora non conosciamo.
Il
sistema automatico può non commettere errori, ma le nostre simulazioni?
Di
piú, l’e-commerce trasforma l’esperienza
dell’acquisto in un processo attuabile da casa. Questa osservazione, in tutta
la sua lapalissiana banalità, ha un corollario: nel tessuto urbano, le zone commerciali perdono la propria sensatezza.
Attraverso il web, il negozio si
colloca ovunque e sempre. Uno smartphone è in grado di compiere acquisti dalla cima di una montagna o dalla
battigia di una spiaggia, di giorno o di notte.
Lo
shopping online, in altre parole, diviene un servizio continuamente a nostra
disposizione, che non risponde piú ad alcune semplici regole come la
provenienza e la disponibilità di certe merci o l’orario di apertura del
distributore. Per rendersi massimamente fruibile dall’uomo, il servizio si
dis-umanizza, inizia a funzionare come se al fondo il suo sostrato non fosse il
lavoro e l’ambiente umano ma un dispositivo autoalimentato, onnipresente e
anonimo.
Il
meccanismo della compravendita si meccanicizza per rendersi impiegabile con la
massima facilità, allontanandosi dalla corporeità della poiesis, il processo della produzione che sta alla sua origine. Cosí,
spogliato della sua macchinosità, il meccanismo diviene capace di orientare la
topografia della città tanto da ridimensionare il significato dei luoghi fisici
in cui avviene il commercio, cioè quei luoghi che delle città sono stati motori
propulsivi.
In
questa eterea trascendenza offerta dalla rete, rimane lo scoglio della
consegna, il fatto che la merce sia ancora un prodotto fisico da recapitarsi,
ma gli e-book ci insegnano che la
metamorfosi anche in questo senso potrebbe raggiungere vette impensate.
La città, deprivata di una sua
componente fondamentale, il mercato, si ri-pro-getta verso nuove
direzioni. Se tornasse oggi,
Zarathustra forse dovrebbe annunciare la morte di Dio attraverso un fastidioso
pop-up pronto a sbucare proprio mentre proviamo a comprare un libro (magari di
Nietzsche) su internet. Oppure, meglio, nei centoquaranta caratteri di Twitter.
Lo shopping online ci sgrava dal peso
di recarci ad acquistare i prodotti.
Ma chi sceglie le verdure che ci vengono recapitate a casa? A chi deleghiamo
questa responsabilità? Non al commerciante di fiducia, ma al sistema, a un anonimo
meccanismo nel quale, a un certo punto della catena di montaggio, qualcuno
seleziona il cibo che mangeremo e che abbiamo scelto perentoriamente,
comunicandolo non attraverso una richiesta, o una domanda, ma per mezzo di un ordine. Già siamo nel lessico della
tecnica, già siamo nel modo del dispositivo (l’ordine va eseguito, non
esaudito).
Cosí,
mentre la metropoli si ingigantisce e si massifica, invitandoci a blindare le
porte di casa, anziché a lasciarle aperte, in questo clima di tendenziale e
crescente diffidenza verso l’altro da sé, noi ci fidiamo del sistema, del
marchingegno automatico cui demandiamo addirittura la scelta del cibo che
mangeremo. E questo, forse, perché percepiamo quel processo come meccanico,
come se dietro non ci fossero delle persone. Ci affidiamo alla spesa online
perché pensiamo che sia autoprodotta, che non siano degli sconosciuti a
scegliere il cibo per noi ma una macchina progettata apposta per questo.
Negli
umani riponiamo meno fiducia che negli strumenti che essi producono, perché gli
strumenti sono infallibili. La stessa dicitura “errore umano” è un pleonasmo: l’errore è sempre
umano.
Cosa succede a una città, quando la
sua stessa intelligenza ne mette a rischio alcune strutture fondamentali?
Cosa
accade quando ci ravvediamo dall’euforica ebbrezza in cui ci getta la
tecnologia?
Ai
postumi l’ardua sentenza.
Oggi,
intanto, a cinquant’anni dalla conferenza di Monaco in cui Heidegger poneva la
celebre questione della tecnica, l’esigenza
di pensare il progresso, anziché limitarsi a viverlo, sembrerebbe reclamare la
sua attualità.