di Tommaso
Matano
Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi
narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti
sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.
“Non sapersi orientare in una città non
significa molto.
Ci vuole invece una certa pratica per
smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade
devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze
del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un
avvallamento, le ore del giorno. Quest’arte l’ho appresa tardi; essa ha
esaudito il sogno, le cui prime tracce furono i labirinti sulle carte
assorbenti dei miei quaderni.”
Walter Benjamin, Tiergarten, in Infanzia berlinese
Orientarsi significa volgersi verso oriente, verso il luogo
in cui la luce sorge e dona allo spazio una sua intelligibilità. Ma orientarsi
significa anche delimitare, contornare il dove in cui ci muoviamo. La
particolarità dell’orientamento è che non si configura come un progetto, come l’ipotesi
di un percorso. L’orientamento è una mappa dei luoghi che costruiamo muovendoci
all’interno dei luoghi stessi, un
processo in divenire, che si conquista sul campo.
L’orientamento
condivide con l’orizzonte un originario rimando all’idea del confine, dell’estremità.
Orientarsi vuol
dire, in qualche misura, sentirsi a
proprio agio con gli orizzonti, riconoscerli.
Una città fornisce
dei limiti molto precisi, artificiali, costruiti ad arte per renderla
abitabile. Una città è il luogo dell’orientamento per eccellenza: lo è per il
fatto di avere una geometria, un centro, una periferia, una geografia di
collegamenti, una tassonomia. Perdersi
in una città sembrerebbe un’impresa ardua, contraria alle regole.
Eppure avviene. Ci
si smarrisce perfino nella propria città,
nei punti ciechi che non abbiamo mai frequentato, sul crinale di nuovi
quartieri, nell’inaspettato risolversi della topografia cittadina in uno schema
mai visto. Ci si smarrisce in modo sorprendente, o talvolta in modo scontato.
Capita anche di
perdersi andando incontro allo smarrimento consapevolmente.
Questa trasgressione
alle leggi della città, però, non ci mette alla porta, non ci esilia dal tessuto
urbano.
Certe volte, anzi,
ci consente di penetrare nei luoghi con una forza del tutto nuova.
Il valore euristico dello smarrimento
potrebbe essere attestato ammettendo che per il viaggio valga, come per tutte
le ricerche, il principio della serendipità
(quel fenomeno che Julius Comroe Jr. descrive come “cercare un ago in un
pagliaio e trovarci la figlia del contadino”).
Perdersi può
consentire di trovare piú di quello
che stavamo cercando.
Questo romantico
piacere dello smarrimento, questa gioia dell’infrazione, deve oggi fare i conti
con la potenza della tecnologia.
Ci si può ancora perdere, in una città intelligente?
Convochiamo a titolo
d’esempio il navigatore satellitare.
Uniamo il navigatore satellitare allo smartphone. Ed ecco l’inviolabile interdetto:
Non ci si smarrisce.
Vivificata, la
tecnologia ci parla scandendo nell’orecchio la strada da percorrere. Lo
strumento ci indica la via. Lo fa spontaneamente, quasi anticipando la nostra
domanda. Il navigatore ci individua e ci
dice cosa fare. Dove andare. Non serve chiedere informazioni, non serve
leggere il nome delle strade, non serve sapersi collocare nell’educata
miniatura di mondo che è la mappa.
Il navigatore,
sempre a portata di mano grazie alla sua integrazione con lo strumento che ci
rende comunicativi e reperibili, cioè aperti sul mondo 24 ore su 24, veglia sui
nostri movimenti.
Dissipando ogni
indecisione, ogni tentativo, ogni scorciatoia, ogni imperfetta mossa umana di
orientamento, la macchina non ci insegna
lo spazio. Ce lo indica.
Invitati dall’incomparabile
comodità delle istruzioni a seguire la strada che suggerisce il navigatore, noi
percorriamo pezzi di strada che rientrano in un ordine che non ci riguarda, che
ci rimarrà necessariamente estraneo.
Strumento con cui la
città fa rispettare le sue regole, il navigatore non ha nulla a che fare con la
navigazione. Non è una bussola, né una cartina, non è una costellazione.
Esso è piuttosto un legislatore, un’autorità.
Rispondendo alla
paura che la fragilità dello smarrimento porta con sé, il navigatore ci invita
al percorso escatologico e sommesso di un itinerario prestabilito. Come un Dio
che guarda la città da altezze orbitali, il
navigatore ci vieta l’errore, ricalcolando di continuo il percorso,
riadattandolo, scaltro, plastico, sensibile alla nostra fallibilità.
Il navigatore, piú
che aiutarci a trovare la strada, la crea. Severo, distante, perentorio ci
mostra la città nella sua veste piú inquietante: come uno scenario da
attraversare, da lasciarsi alle spalle. E soprattutto, il navigatore, cosí come
l’accessibilità a internet in ogni momento, ci illude di liberarci della piú
umana delle caratteristiche: il dubbio.
Lo smartphone,
questo spietato elogio della certezza, con il suo corredo oracolare di risposte
a tutte le nostre domande, ci annuncia che il
tempo dello smarrimento è finito.
“Di chi era quel film? Dai quel film con quell’attore…”. “Aspé
che lo vedo sull’iPhone. Era…”
Tale schiacciante vittoria dell’enciclopedia sull’arte
della discussione (e della memoria) ha il suo corrispettivo nel viaggio. Con il
navigatore noi non impariamo la strada. La eseguiamo.
La consapevolezza
impeccabile della via da percorrere, questa conoscenza superiore e inumana,
consegnata alla perfezione dell’intelligenza artificiale, può rivelarsi presto
illusoria.
Perché tali strumenti, piú che orientarci, ci
deresponsabilizzano, sgravandoci dal peso della ricerca.
Può capitare che il
navigatore ci indichi una via impercorribile, chiusa per lavori.
Lí, di fronte al
silenzio della sua scienza, ci riconcilieremo con la dignità dell’esplorazione.