In collaborazione con Il Bureau
A Barjac, nel sud della Francia, Anselm Kiefer ha costruito La Ribaute, un agglomerato di edifici, scale, cuniculi e gallerie che si rincorrono lungo una vasta superficie nella campagna francese. Una piccola città esposta alla lenta corrosione degli elementi naturali, e quindi destinata a trasformarsi in rovina. Una simile idea di archeologia inversa Kiefer ha trasferito, amplificandola, nel 2004 all’HangarBicocca di Milano, nei suoi Sette palazzi celesti. Sette torri di altezza variabile tra i 14 e i 18 metri, in cemento armato, che interpretano i palazzi descritti nell’antico trattato ebraico Sefer Hechalot. Una città monumentale e divina precipitata sulla terra, che invita alla contemplazione sintetica delle macerie di tutte le civiltà umane, mostrando una sineddoche dei sempre ricorrenti tentativi terrestri di edificazione. Il tempo e la storia si manifestano attraverso la consunzione della materia e l’erosione delle forme, mentre dalla trama delle rovine affiorano gli oggetti desueti che sono stati agenti della civilizzazione: libri ridotti a un silenzio di piombo, mezzi di trasporto, macchine da guerra, immagini cieche con i loro strumenti di produzione e riproduzione, incapaci di sottrarle alla minaccia dell’oscuramento e dell’oblio.
A Barjac, nel sud della Francia, Anselm Kiefer ha costruito La Ribaute, un agglomerato di edifici, scale, cuniculi e gallerie che si rincorrono lungo una vasta superficie nella campagna francese. Una piccola città esposta alla lenta corrosione degli elementi naturali, e quindi destinata a trasformarsi in rovina. Una simile idea di archeologia inversa Kiefer ha trasferito, amplificandola, nel 2004 all’HangarBicocca di Milano, nei suoi Sette palazzi celesti. Sette torri di altezza variabile tra i 14 e i 18 metri, in cemento armato, che interpretano i palazzi descritti nell’antico trattato ebraico Sefer Hechalot. Una città monumentale e divina precipitata sulla terra, che invita alla contemplazione sintetica delle macerie di tutte le civiltà umane, mostrando una sineddoche dei sempre ricorrenti tentativi terrestri di edificazione. Il tempo e la storia si manifestano attraverso la consunzione della materia e l’erosione delle forme, mentre dalla trama delle rovine affiorano gli oggetti desueti che sono stati agenti della civilizzazione: libri ridotti a un silenzio di piombo, mezzi di trasporto, macchine da guerra, immagini cieche con i loro strumenti di produzione e riproduzione, incapaci di sottrarle alla minaccia dell’oscuramento e dell’oblio.
Letteralmente all’ombra di questa memoria
pietrificata, archeologia di
simboli, scorrono i flussi sonori e luminosi di un display riecheggiato
all’infinito dagli specchi: Unidisplay,
istallazione temporanea di Carsten
Nicolai collocata accanto all’opera di Kiefer. Il senso del tempo e dello
spazio che Kiefer affida alle tracce che incidono le cose si trasfonde con
Nicolai nell’immaterialità del digitale. Il peso di milioni di atomi condensati
nel cemento armato si scioglie nella fluidità
dei bit. La cui scansione binaria è ribadita dalla rigorosa bicromia del bianco
e nero. Le masse luminose e gli impulsi sonori compongono sul display un
grafico dell’esistenza nel quale alle tracce della storia si sostituiscono i
significati composti dalle intensità,
dalle frequenze, dai ritmi. La città risolve la propria
topografia nella descrizione sintetica dei flussi di informazione che la
attraversano. Come specchio digitale dei Sette
palazzi di Kiefer il display di Nicolai diventa una riflessione sulla forma della città nell’epoca della sua
rappresentazione mediale.
Del resto esiste un legame originario tra l’arte e la rappresentazione della città come piattaforma di comunicazione, groviglio di segni e messaggi. L’arte descrive la città sfruttando il sapere tecnologico piú avanzato che la città e il suo tempo sono riusciti a produrre: dal prodigio tecnico della cupola di Brunelleschi, compimento dei saperi di un’epoca, al display di Nicolai che consegna alla città la sua mappa digitale. Dove non ci sono piú oggetti ma nodi, flussi e campi di distribuzione dell’informazione.
La città non è
soltanto quanto è racchiuso dal perimetro delle sue mura, o l’insieme delle sue
funzioni istituzionali. Lo spazio urbano è fatto di tutto quanto contribuisce a costruire significati, gli elementi
materiali e immateriali, le relazioni, gli eventi, le influenze, i rapporti di
forza, i flussi che attraversano i luoghi. La città si estende oltre le cose,
gli edifici, gli individui che contiene, e diventa un’ipotesi di senso, l’immagine mentale che ciascuno si fa dello
spazio della vita.
La città è un processo, una pratica
permanente, qualcosa che si fa qui e ora e che si intreccia alla produzione
incessante di segni che scaturisce dal vivere sociale. Città e atto
comunicativo condividono questa dimensione del fare all’interno della quale si
scambiano soluzioni tecniche e
concettuali, in una attribuzione continua, e reciproca, di significati.
Attraverso le strutture della comunicazione
la città assimila la mutazione delle
tecniche, collocandola dentro un sistema che include l’economia e in
generale tutte le articolazioni dell’organizzazione sociale. La comunicazione
allestisce all’interno della città un laboratorio
di invenzione che ha un rapporto osmotico con il contesto urbano. Mentre
indaga, critica, descrive lo spazio della città, la comunicazione lo modifica e
ne è modificata. Si colloca dentro la città come ipotesi progettuale, genera interpretazioni dello spazio che
producono uno scarto rispetto all’esistente urbanistico, e suggeriscono modelli
di trasformazione.
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RispondiEliminaDal tuo articolo (molto interessante) ricavo due suggestioni di ricerca possibile, una lontana dal presente che investighi, e una no: 1) la città come "metafora" (in Wittgenstein e in Benjamin); 2) il rapporto tra passato e presente nell'architettura e nell'urbanistica praticata in Cina in questi anni (vedi il Premio Pritzker dato al cinese Wang Shu). Dello spazio urbano come "costruzione di significati" a me interessa soprattutto questa dialettica temporale, ma so che è una particolare predisposizione mia.
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