martedì 20 novembre 2012

L’Europa delle città: Parigi

Tommaso Matano

Questo testo fa parte di un’inchiesta collettiva su L’Europa delle città, prodotta in collaborazione con Il Bureau: cittadini europei raccontano, attraverso esperienze professionali e di vita, esempi di intelligenza urbana che attivano il sapere creativo delle città, e possono offrire modelli di riconnessione del tessuto culturale europeo.

 
Se esistesse un test del QI per misurare l’intelligenza di una città, la gracchiante voce degli altoparlanti della metropolitana contribuirebbe a far ottenere a Parigi un buon risultato. In quattro o cinque diverse lingue un’anonima signorina ricorda di non lasciare i bagagli incustoditi e di conservare il titolo di viaggio fino all’uscita dalla stazione.
Concessione di poliglottismo e comunicabilità apparentemente paradossale, nella città dell’orgoglio e del nazionalismo francesi, il luogo in cui la proverbiale antipatia parigina diventa verbo (e smorfia), la terra dove la pronuncia sbagliata di un singolo accento può trasformarsi in estromissione dalla semiosfera o piú semplicemente in suicidio sociale.
Rifletto su tale ossimoro mentre sono a bordo della futuristica linea 14, in un vagone affollato di persone che parlano uno strano francese e che invitate dall’insistenza di uno squillo a rispondere al cellulare, sfoggiano fedelmente, e con una certa soddisfazione, la propria lingua materna.
Dev’essere questo che si intendeva, quando si parlava di Europa. Non piú soltanto fenomeni sfuggevoli e apparentemente acefali come lo spread, i tassi d’interesse e i debiti pubblici, ma anche questo ricettacolo di persone che si guardano intorno circospette, consapevoli di esser pesci fuor d’acqua che iniziano a rinunciare alle branchie e imparano a usare i polmoni.
Tutti insieme in quella Parigi che è stata capitale dell’Europa di un altro tempo, di un’altra modernità – fatta di passages , e che oggi nasconde dietro la sua aria decadente da belle epoque il cuore pulsante di una metropoli del presente.

La vita di un emigrante in una metropoli come Parigi sembra assumere le movenze di una struttura dialettica, l’affermazione dell’arrivo, l’alienazione dell’esclusione, e infine il superamento o meglio l’integrazione.
Sta all’intelligenza della città accompagnare questo movimento, addolcirlo, rendendo risorsa i propri luoghi, affinché i cittadini (anche stranieri) diventino a loro volta risorsa per la città. Lo Stato francese stanzia notevoli borse di studio per gli studenti stranieri in trasferta a Parigi (che conta diciassette università) e offre fondi per sostenere i prezzi astronomici degli affitti. La vita resta comunque troppo costosa e la macchina burocratica un mostro pletorico difficile da sconfiggere, le banlieues sono l’altra faccia di una medaglia che porta in effige le facciate borghesi dei palazzi haussmaniani e vanta il maggior numero di turisti al mondo, il modello d’integrazione multiculturale si è rivelato, al fondo, fallimentare e le forme di aggregazione sociale soffrono una sostanziale indifferenza verso l’altro da sé.
Ma. Ma è vero che Parigi è stata, ed è, una città all’avanguardia nell’ambito dell’offerta culturale, un luogo in cui l’industria culturale funziona perché vende, e i soldi fanno la facilità/felicità delle librerie, dei cinema, dei teatri.
Tanto per fare un esempio, invito chiunque non ci sia ancora mai stato a recarsi presso la grande libreria Gibert & Joseph che si erge sul boulevard St. Michel per provare a comprendere la portata referenziale della metafora “il peso della cultura”. O sfido a conoscere tutti gli infiniti piccoli cinema indipendenti, che sopravvivono nonostante la concorrenza con multisale dagli innumerevoli schermi. Per non parlare poi del polo museale e bibliotecario, praticamente un’altra città nella città. Parigi ha introdotto la Notte Bianca e la Notte dei Musei, e di notti in cui tutte le vacche sono nere non ne ha conosciuta nemmeno mezza, visto che è la ville lumière, e le vacche non girano libere per le strade.
La capacità che attività culturali socialmente trasversali hanno di rifigurare la praxis della città, è un aspetto che potrebbe contribuire a una definizione di intelligenza della metropoli, anche se sotto un profilo non immediatamente infrastrutturale o tecnologico.

È degna di nota, in questo senso, la Fête de la musique. L’iniziativa – che va in scena da trent’anni ed è già stata esportata in mezzo mondo – è articolata attraverso la disseminazione di concerti gratuiti in giro per la città. La particolarità è che, anche se alcuni concerti sono organizzati dal Comune, viene data l’opportunità a gruppi di artisti, previa iscrizione, di suonare liberamente in strada. Lo slogan della Fête de la musique è infatti l’omofono Faites de la musique. Non si tratta propriamente di un festival musicale; i cittadini possono improvvisare concerti negli spazi pubblici della città. La festa si tiene il 21 Giugno e ha ormai raggiunto un livello di diffusione europeo. L’evento è stato infatti allargato, divenendo European music day, garantendo reciproci scambi di artisti tra un paese e l’altro. In Italia, grazie all’Associazione italiana per la festa della musica, l’evento è giunto alla sua diciottesima edizione, e attraverso la collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali promette di espandersi e guadagnare una cassa di risonanza sempre maggiore.
All’abituale idea di consumo culturale di massa, in stile Nuit blanche, questo tipo di iniziativa oppone una versione che in lessico internautico potremmo definire 2.0. I cittadini, infatti, non si limitano a essere fruitori dell’offerta, ma la producono. Che il coordinamento sia di livello europeo, poi, non può che essere una buona notizia: se è vero che la costruzione di un’identità culturale europea è una sfida che stiamo ancora affrontando, qualcosa che abbiamo posposto alla moneta unica e agli ordinamenti politici, iniziative di immediato contatto con il territorio non possono che essere positive.

Non credo sia vero, come vorrebbero certe interpretazioni, che l’Europa abbia inscritto in sé, già nel suo etimo, un carattere destinalmente crepuscolare. Credo sia invece necessario perseguire quella strada che vuole nella storia d’Europa la storia dei tentativi di fornire una risposta alla domanda “che cos’è l’Europa?”. E credo che questi tentativi, nel loro fallire sempre meglio, possano quantomeno contribuire a sviluppare nei cittadini d’Europa che già siamo, il senso di una comune appartenenza.
Che le città, attraverso le loro pratiche del vivere assieme, si facciano carico di questo compito, è una speranza, ma anche la constatazione di qualcosa che già avviene. Tanto la metropoli può contribuire con le forme del suo sviluppo alla costruzione di un’identità europea, quanto l’Europa può influire sul mutamento della metropoli stessa.
La (ri)appropriazione degli spazi pubblici assume un carattere doppiamente rivelatore nel momento in cui svela che quegli spazi sono abitabili – e anzi sono già abitati – e che gli inquilini che orbitano in quello spazio pubblico da cui la frenesia della metropoli sembra volerci esiliare, vengono da un paese piú grande del nostro, cui però anche noi apparteniamo.
La rapidità con cui le nostre prassi del vivere quotidiano si sono riorganizzate e continuamente, silenziosamente, lo fanno, ci spinge verso un modo di stare nella città, nelle città, cui stentiamo a dare nomi. La solidità di una pratica culturale e sociale condivisa offre, oltre all’affermazione di un’appartenenza, un raggio di luce sulla vertigine di tale frenesia.

Che esista una piazza in cui la sera gli abitanti del quartiere si riversano per evitare che divenga spento monumento in vetrina per il turismo, che vi si possa ascoltare un concerto improvvisato dagli stessi cittadini, che per raggiungerla ci si serva dell’avanguardistica (ormai già “vecchia” per città come Copenaghen) metropolitana senza conducente, con un servizio totalmente automatizzato e puntuale, che (quasi) tutti i luoghi siano accessibili ai disabili, che i non vedenti possano vivere la città, percorrerla orientandovisi, che gli autobus notturni dispongano di un servizio di sorveglianza in collegamento con i commissariati di polizia, che questa intelligenza sia insomma la cifra dello sviluppo di una metropoli come Parigi, può e deve essere fonte di ispirazione per tutta l’Europa, che nell’orizzonte del progresso delle proprie città è già, del resto, sempre implicata.

Tommaso Matano, 22 anni, studia e ha studiato filosofia a Roma, e per un po' a Parigi. Per ora non ha realizzato nulla di importante, ma se dovesse farlo questa nota biografica sarà la prima a saperlo.

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