Tommaso Matano
Questo testo fa parte di un’inchiesta collettiva su
L’Europa delle città, prodotta in collaborazione con Il Bureau: “cittadini
europei” raccontano, attraverso esperienze professionali e di vita, esempi di intelligenza urbana che attivano il sapere
creativo delle città, e possono offrire modelli di riconnessione del tessuto culturale europeo.
Se esistesse un test del
QI per misurare l’intelligenza di una
città, la gracchiante voce degli altoparlanti della metropolitana
contribuirebbe a far ottenere a Parigi un buon risultato. In quattro o cinque
diverse lingue un’anonima signorina ricorda di non lasciare i bagagli
incustoditi e di conservare il titolo di viaggio fino all’uscita dalla
stazione.
Concessione di poliglottismo e comunicabilità
apparentemente paradossale, nella città dell’orgoglio e del nazionalismo francesi,
il luogo in cui la proverbiale antipatia parigina diventa verbo (e smorfia), la
terra dove la pronuncia sbagliata di un singolo accento può trasformarsi in
estromissione dalla semiosfera o piú semplicemente in suicidio sociale.
Rifletto su tale ossimoro
mentre sono a bordo della futuristica linea 14, in un vagone affollato di
persone che parlano uno strano francese e che invitate dall’insistenza di uno
squillo a rispondere al cellulare, sfoggiano fedelmente, e con una certa
soddisfazione, la propria lingua materna.
Dev’essere questo che si
intendeva, quando si parlava di Europa.
Non piú soltanto fenomeni sfuggevoli e apparentemente acefali come lo spread, i
tassi d’interesse e i debiti pubblici, ma anche questo ricettacolo di persone
che si guardano intorno circospette, consapevoli di esser pesci fuor d’acqua che iniziano a rinunciare alle branchie e imparano a
usare i polmoni.
Tutti insieme in quella
Parigi che è stata capitale dell’Europa di un altro tempo, di un’altra
modernità – fatta di passages –, e che oggi nasconde dietro la sua aria
decadente da belle epoque il cuore
pulsante di una metropoli del presente.
La vita di un emigrante in
una metropoli come Parigi sembra assumere le movenze di una struttura dialettica, l’affermazione
dell’arrivo, l’alienazione dell’esclusione, e infine il superamento o meglio l’integrazione.
Sta all’intelligenza della
città accompagnare questo movimento, addolcirlo, rendendo risorsa i propri
luoghi, affinché i cittadini (anche stranieri) diventino a loro volta risorsa
per la città. Lo Stato francese stanzia notevoli borse di studio per gli studenti stranieri in trasferta a
Parigi (che conta diciassette università) e offre fondi per sostenere i prezzi
astronomici degli affitti. La vita resta comunque troppo costosa e la macchina
burocratica un mostro pletorico difficile da sconfiggere, le banlieues sono l’altra faccia di una
medaglia che porta in effige le facciate borghesi dei palazzi haussmaniani e
vanta il maggior numero di turisti al mondo, il modello d’integrazione
multiculturale si è rivelato, al fondo, fallimentare e le forme di aggregazione
sociale soffrono una sostanziale indifferenza verso l’altro da sé.
Ma. Ma
è vero che Parigi è stata, ed è, una città all’avanguardia nell’ambito dell’offerta culturale, un luogo in cui
l’industria culturale funziona perché vende, e i soldi fanno la
facilità/felicità delle librerie, dei cinema, dei teatri.
Tanto per fare un esempio,
invito chiunque non ci sia ancora mai stato a recarsi presso la grande libreria
Gibert & Joseph che si erge sul
boulevard St. Michel per provare a comprendere la portata referenziale della
metafora “il peso della cultura”. O
sfido a conoscere tutti gli infiniti piccoli cinema indipendenti, che sopravvivono nonostante la concorrenza con
multisale dagli innumerevoli schermi. Per
non parlare poi del polo museale e
bibliotecario, praticamente un’altra città nella città. Parigi ha
introdotto la Notte Bianca e la Notte dei Musei, e di notti in cui tutte le
vacche sono nere non ne ha conosciuta nemmeno mezza, visto che è la ville lumière, e le vacche non
girano libere per le strade.
La capacità che attività
culturali socialmente trasversali hanno di rifigurare la praxis della città, è un aspetto che potrebbe contribuire a una
definizione di intelligenza della
metropoli, anche se sotto un profilo non immediatamente infrastrutturale o
tecnologico.
È degna di nota, in questo
senso, la Fête de la musique. L’iniziativa
– che va in scena da trent’anni ed è già stata esportata in mezzo mondo – è
articolata attraverso la disseminazione di concerti
gratuiti in giro per la città. La particolarità è che, anche se alcuni
concerti sono organizzati dal Comune, viene data l’opportunità a gruppi di
artisti, previa iscrizione, di suonare liberamente in strada. Lo slogan della Fête de la musique è infatti l’omofono Faites
de la musique. Non si tratta
propriamente di un festival musicale; i cittadini possono improvvisare concerti
negli spazi pubblici della città. La festa si tiene il 21 Giugno e ha ormai
raggiunto un livello di diffusione europeo.
L’evento è stato infatti allargato, divenendo European music day, garantendo reciproci scambi di artisti tra un
paese e l’altro. In Italia, grazie all’Associazione italiana per la festa della musica, l’evento è giunto alla sua diciottesima edizione, e attraverso
la collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali promette
di espandersi e guadagnare una cassa di risonanza sempre maggiore.
All’abituale idea di
consumo culturale di massa, in stile Nuit
blanche, questo tipo di iniziativa oppone una versione che in lessico
internautico potremmo definire 2.0.
I cittadini, infatti, non si limitano a essere fruitori dell’offerta, ma la
producono. Che il coordinamento sia di livello europeo, poi, non può che essere
una buona notizia: se è vero che la costruzione
di un’identità culturale europea è una sfida che stiamo ancora affrontando,
qualcosa che abbiamo posposto alla moneta unica e agli ordinamenti politici,
iniziative di immediato contatto con il territorio non possono che essere
positive.
Non credo sia vero, come
vorrebbero certe interpretazioni, che l’Europa abbia inscritto in sé, già nel
suo etimo, un carattere destinalmente crepuscolare. Credo sia invece necessario
perseguire quella strada che vuole nella storia d’Europa la storia dei
tentativi di fornire una risposta alla
domanda “che cos’è l’Europa?”. E credo che questi tentativi, nel loro
fallire sempre meglio, possano quantomeno contribuire a sviluppare nei cittadini d’Europa che già siamo, il senso di una comune appartenenza.
Che le città, attraverso
le loro pratiche del vivere assieme, si facciano carico di questo compito, è
una speranza, ma anche la constatazione di qualcosa che già avviene. Tanto la
metropoli può contribuire con le forme del suo sviluppo alla costruzione di
un’identità europea, quanto l’Europa può influire sul mutamento della metropoli
stessa.
La (ri)appropriazione degli spazi pubblici assume un carattere
doppiamente rivelatore nel momento in cui svela che quegli spazi sono abitabili
– e anzi sono già abitati – e che gli inquilini che orbitano in quello spazio
pubblico da cui la frenesia della metropoli sembra volerci esiliare, vengono da
un paese piú grande del nostro, cui però anche noi apparteniamo.
La rapidità con cui le
nostre prassi del vivere quotidiano
si sono riorganizzate e continuamente, silenziosamente, lo fanno, ci spinge
verso un modo di stare nella città, nelle città, cui stentiamo a dare nomi. La
solidità di una pratica culturale e sociale condivisa offre, oltre
all’affermazione di un’appartenenza, un raggio
di luce sulla vertigine di tale frenesia.
Che esista una piazza in cui la sera gli abitanti del
quartiere si riversano per evitare che divenga spento monumento in vetrina per
il turismo, che vi si possa ascoltare un concerto
improvvisato dagli stessi cittadini, che per raggiungerla ci si serva
dell’avanguardistica (ormai già “vecchia” per città come Copenaghen) metropolitana senza conducente, con un
servizio totalmente automatizzato e puntuale, che (quasi) tutti i luoghi siano
accessibili ai disabili, che i non
vedenti possano vivere la città, percorrerla orientandovisi, che gli autobus
notturni dispongano di un servizio di sorveglianza in collegamento con i
commissariati di polizia, che questa intelligenza sia insomma la cifra dello
sviluppo di una metropoli come Parigi, può e deve essere fonte di ispirazione per tutta l’Europa, che nell’orizzonte del
progresso delle proprie città è già, del resto, sempre implicata.
Tommaso Matano, 22 anni, studia e ha studiato filosofia a Roma, e per un po' a Parigi. Per ora non ha realizzato nulla di importante, ma se dovesse farlo questa nota biografica sarà la prima a saperlo.