“C’è
una nuova moda tra i potenti”, ha scritto Salvatore Settis il 31 luglio su
Repubblica: “profanare Venezia”. Il
profilo urbano descrive l’andamento dei conflitti che determinano l’esistenza
di una città. I processi di appropriazione della città come spazio simbolico, secondo l’accusa di
Settis, stanno producendo a Venezia lacerazioni violente e prepotenti
discontinuità, affermando la sopraffazione del presente, e delle sue esigenze
meno lungimiranti, sul passato e sulla profondità storica. Venezia viene
oltraggiata dalle enormi navi che
si insinuano nella laguna a beneficio dei turisti. Il Fondaco dei Tedeschi,
acquistato da Benetton, viene
stravolto non tanto nella sua destinazione (commerciale da secoli), ma nel significato
della sua architettura: Rem Koolhas, architetto incaricato della
ristrutturazione, forza programmaticamente il contesto per affermare l’emergenza del moderno. Infine, il
progetto dell’imprenditore Pierre Cardin per Marghera: un Palais Lumière alto 250 metri, per una superficie totale di 175.000
metri quadrati, tre torri intrecciate per 60 piani abitabili, destinato a
ospitare un’università della moda, e poi alberghi, ristoranti, appartamenti,
centri congressi, impianti sportivi. Una torre
babelica, secondo Settis, che sovrasterebbe di 140 metri il campanile di
San Marco, incidendo violentemente lo skyline della città.
A
Settis non sfugge l’opportunità,
implicita nel progetto, di risanare un’area industriale disagiata e dismessa, eppure
si chiede perché le amministrazioni non accordino la priorità a disegni meno invasivi.
Rispondendosi apoditticamente: “in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del
progetto.” È una violazione simbolica, un’affermazione della potenza del contemporaneo
e delle sue capacità di rottura. Un’umiliazione che il presente vuole infliggere
al passato. Un ricatto che l’economia impone alla politica, al pubblico e ai
suoi vincoli di legalità, assecondando un processo di privatizzazione della città in cui emergono gli istinti anarchici e
antisociali del tardo capitalismo.
Una
recente tentazione dell’altezza
sembra attraversare l’Italia, terra di campanili che non hanno ancora fatto
posto ai grattacieli. Torino, Milano, Bologna, Savona, Venezia: un rincorrersi verticale che riproduce la corsa
medievale alla rappresentazione del potere attraverso le torri. Nel Novecento la
vertigine verticale ha guidato l’architettura all’inizio e alla fine del secolo,
dicendo il sogno di dismisura del capitalismo
e la sua vocazione fallica. Il trauma dell’11 settembre e i dissesti economici coi
quali si è aperto il nuovo millennio sembravano suggerire un ripensamento in senso orizzontale degli
spazi e dell’organizzazione sociale. Ma gli “strattoni” prodotti dal
capitalismo per uscire da una delle sue involuzioni di sistema passano forse anche
attraverso uno slancio verticale, una nuova
affermazione d’altezza che respinge in basso le richieste di riforme
strutturali.
Del
resto, ammonisce Luca Nannipieri, non c’è trasformazione possibile senza infrangere i vincoli dell’esistente.
Non c’è futuro senza fluidificazione del presente, e riscrittura del passato.
Gli allarmi dei conservatori sono azioni “a difesa di tutto quello che è e che
tale deve restare”. Politiche di “opprimente
e deprimente” tutela che finiscono per mummificare l’Italia. “Da sempre le
città sono realtà trasformate e da trasformare. Da sempre i loro confini, le
loro identità, le loro mura, i loro palazzi, i loro perimetri sono stati
ridiscussi, abbattuti, ritrascritti, riveduti, perché non esiste una conservazione che si antepone alla vita, se non a
patto di sopprimerla, di renderla irrespirabile, appunto mummificata. Le
bellezze sono da sempre bellezze contese, comprate, vendute, contrattualizzate,
oggetto di affari, profitti, guadagni, perché dove non ci sono guadagni e profitti non c’è attività umana.”
Ogni
città modifica continuamente il proprio presente, ridefinendo le forme che lo
descrivono. Bloccare questo processo significa svuotare le città del proprio
significato, separarle dal flusso dell’attività umana. “Tutte le piú grandi
città sono diventate piú affascinanti e moderne dopo che vi sono state
costruite opere disturbanti, che
rompevano la visione ormai acquisita degli spazi.” La ridefinizione attiva
degli spazi urbani passa anche attraverso la loro improvvisa, spesso violenta,
“profanazione”. Che è profonazione soltanto del nostro “eccesso di quiete nella comprensione del passato e del presente”.
La
sostenibilità degli interventi
architettonici è una contrattazione sul confine instabile tra esigenze di tutela e necessità di rinnovamento. “Spesso l’architettura
che fa pensare rinuncia a costruire”, dice Gianni Pettena, artista “architettonico”
che riflette sul nesso tra sostenibilità e reversibilità
degli interventi. Non sempre la reversibilità coincide con la sostenibilità. L’arte è spesso irreversibile in quanto
si inserisce in “un contesto che viene visivamente modificato e concettualmente
sviluppato”. Senza modificazione visiva e
sviluppo concettuale non si dà intervento artistico. “Non è solamente
importante la conservazione del contesto, ma anche la traccia della sua
modifica attraverso l’accentuazione
della qualità dell’esistente.” Con la sua opera Ice house I Pettena
ha congelato un edificio scolastico dismesso, creando una metafora della
sostenibilità architettonica, sperimentando un intervento capace di modificare,
e rivitalizzare, senza stravolgere destinazioni e significati. “La
sostenibilità non dice mai di no”:
cerca invece di affermare, “attraverso il coinvolgimento di critici e di
competenze collettive”, la possibilità degli uomini di incidere “il proprio segno nel mondo” senza distruggere o
impoverire i contesti.
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