Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. (Italo Calvino)
La
città può diventare lo spazio di un’immersione
formativa nei contesti che determinano le tensioni piú urgenti, e feconde,
del presente. Il sindaco di Vienna Helmut Zilk, scrive Flavia Foradini, ha
pensato negli anni Ottanta di “trasformare il municipio di Vienna e il piccolo parco antistante in un potente magnete che
richiamasse la popolazione verso il
cuore del governo della capitale e abbassasse le barriere tra politica e
società civile.” Da allora la città ha promosso una catena ininterrotta di
iniziative per sviluppare la cultura
della partecipazione. Attualmente, durante l’estate, gli spazi del
municipio ospitano la Kinderstadt, una città governata dai bambini. Un
laboratorio che permette ai bambini fino ai 13 anni di giocare alla democrazia, misurandosi con la creazione delle istituzioni politiche, con i problemi
del lavoro, con la gestione della spesa pubblica e privata, con le
contraddizioni del sistema fiscale.
La città dei bambini attraversa crisi non dissimili da quelle che preoccupano
gli adulti. E i legislatori rispondono con interventi di regolamentazione dell’economia e di redistribuzione delle risorse. Ogni giorno viene eletto un nuovo
sindaco, al termine di regolari campagne elettorali incardinate su programmi
dominati dalla pervasività dei temi
economici.
L’educazione all’economia si
sta imponendo come una priorità per l’accesso alle dinamiche della
cittadinanza. Sottrarre il pensiero economico alla metafisica gergale,
all’inviolabilità delle sue parole d’ordine, per restituirlo alla dimensione
“commensurabile” dell’esistenza
quotidiana, sta diventando un’emergenza democratica. Rendere accessibili le
parole e gli oggetti del discorso economico, per garantire ai cittadini la
possibilità di condividerne e
comprenderne le pratiche. È sempre piú urgente individuare funzioni di mediazione
in grado di fare “dell’etica e dell’economia un unico campo d’indagine”, come
scrive Armando Massarenti sulla Domenica de “Il Sole 24 Ore” citando il Nobel
per l’economia Reinhard Selten. Selten è stato con Vernon Smith uno dei
pionieri dell’economia sperimentale,
un approccio che ha dimostrato empiricamente l’inefficienza degli oligopoli o
il funzionamento dei meccanismi che creano le bolle finanziarie. Simili
elementi pragmatici e sperimentali Massarenti individua nel progetto del Mide,
Museo interattivo di economia di Città del Messico, nato sul modello del museo
newyorchese dedicato alla finanza, cui si ispirerà il Museo del Risparmiodi Torino. Il Mide ha tra i suoi obiettivi proprio quello di “promuovere la pubblica comprensione della scienza economica.”
Il percorso didattico, fatto soprattutto di attività interattive, permette di
avvicinare i problemi economici attraverso l’esperienza diretta dei processi
che li determinano. Le simulazioni mettono gli utenti di fronte ai meccanismi decisionali e alla
complessità delle scelte. Una sala permanente è dedicata a “sviluppo
sostenibile, economia, società e natura.” Qui il coinvolgimento interattivo
porta il visitatore nel nucleo del legame tra economia ed etica, generando “una maggiore consapevolezza dei costi
sociali e ambientali dello sviluppo e dell’importanza cruciale di ricerca e
innovazione”, e affermando l’urgenza e l’utilità dei “meccanismi che mescolano
sapientemente cooperazione e
competizione.”
Sulle
agende per lo sviluppo il dibattito
pubblico vivacchia, e piú spesso muore. In un orizzonte politico asfittico,
colpevolmente appiattito sulle strettoie dell’adesso, è troppo raro trovare
linee di indirizzo che rispondano a una visione.
Il ricatto emergenziale della crisi permanente soffoca le esigenze progettuali. Eppure anche nell’inerzia delle risposte
urgenti, immediate, sembrano imporsi scelte che si presentano con la forza
della necessità. Il dossier sullo sviluppo presentato dal ministro Passera
mette al primo punto dell’ordine del giorno l’implementazione delle infrastrutture e delle pratiche digitali,
attraverso la creazione di una cabina di regia interministeriale e la nascita
dell’Agenzia per l’Italia Digitale. Tra gli obiettivi prinicpali l’azzeramento
del digital divide, lo sviluppo del commercio elettronico, l’alfabetizzazione
digitale, la digitalizzazione dei rapporti con la pubblica amministrazione,
l’uso della digitalizzazione come motore di innovazione trasversale, lo
sviluppo di progettualità “smart”. Strategie di intervento che consuonano con
quelle individuate dal ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Francesco
Profumo nella sua prefazione al libro di Andrea Granelli Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities. “La città intelligente”, scrive
Profumo, “è la proiezione astratta di
un’idea di città del futuro, riconducibile a un perimetro applicativo e
concettuale che racchiude un ampio fascio di applicazioni e verticalizzazioni,
cosí come diversi sono i domini cui appartengono le tecnologie che
concorreranno alla sua realizzazione [...] Al centro della sfida vi è la costruzione di un nuovo genere di bene
comune, una grande infrastruttura tecnologica e immateriale che faccia
dialogare persone e oggetti, integrando informazioni e generando intelligenza,
producendo inclusione e migliorando il nostro vivere quotidiano.” Il programma
presentato da Passera è vincolato alla disponibilità di finanziamenti, per
circa 450 milioni di euro, che sono “ancora
da reperire”. Ma quello che piú conta, oltre alla reperibilità delle
risorse essenziali, è che gli interventi vengano inquadrati nel contesto di una
progettazione organica, che si dia l’obiettivo di sviluppare, prima ancora che
gli strumenti e gli ambienti, una
cultura diffusa dell’innovazione, dello scarto rispetto all’esistente, della
produzione della differenza.
Le pratiche artistiche che
si inscrivono nei contesti urbani, che riflettono sulla relazione tra l’opera
d’arte e l’ambiente, possono dire qualcosa sul presente della città, del quale
la presenza dell’arte rivela i punti di tensione. L’arte si colloca dentro la
città come ipotesi progettuale. La
sua interpretazione dello spazio produce uno scarto rispetto all’esistente
urbanistico, e suggerisce modelli di trasformazione.
Una
mostra può diventare la mappa culturale
di una città. Soprattutto se il percorso espositivo è dislocato attraverso lo
spazio urbano. La mostra Sculture in
città del 1962, ideata da Giovanni Carandente, disseminava nel contesto
stratificato della città di Spoleto la ricerca piú avanzata dell’arte contemporanea
di allora. Sculture di Consagra, Pomodoro, Calder, Pepper, Chillida, Fontana,
Manzù, Moore, Paolozzi, Somaini si misuravano con le prospettive “ancronistiche”
dello scenario cittadino. Introducendo nuove
possibilità di visione e un’esperienza dell’arte che forzava i confini
imposti dalla fruizione museale. La mostra ha inciso nella città e nel sistema
dell’arte una traccia storica che si
è sedimentata e oggi, a cinquant’anni di distanza, viene ripercorsa e riattivata. Alcune delle sculture del 1962 tornano al loro posto, dialogando con cinquanta scultori italiani delle ultime generazioni, che
sovrappongono una nuova cartografia
espositiva a quella d’allora, e riflettono sulle evoluzioni dei materiali,
quindi dei significati, della scultura.
+50 Sculture in città aggiorna l’intuizione di Giovanni Carandente: mettere in
tensione lo spessore storico della città e le dinamiche attuali. La
prosecuzione del racconto iniziato nel 1962 attiva “diversi presenti”, mette a
confronto diverse fasi del contemporaneo,
collegandole per mezzo dello spazio in una simultaneità che non cancella la
profondità temporale, e tenta il paradosso di ripetere una mostra irripetibile. Il curatore della mostra, direttore di Palazzo Collicola,
Gianluca Marziani, descrive l’operazione come “una piattaforma con porte
d’accesso laterali e due varchi principali: uno per alimentare il passato con la ricollocazione di alcune opere del
1962, la creazione di un archivio, la realizzazione di una mappatura del 1962
tramite totem fotografici nei luoghi in cui si trovavano le opere, l’altro per elaborare il presente attraverso la
mostra estiva, il grande catalogo in preparazione, gli eventi collaterali
previsti fino alla fine di ottobre, un convegno autunnale sulla scultura e
nuove sinergie sul territorio.” Rifiutando di collaborare con Vittorio Sgarbi,
per difendere, dice, l’autonomia filologica del progetto, Marziani ha
coordinato intervento pubblico e sostegno privato, con l’obiettivo di
ottimizzare le risorse e puntare alla creazione di un laboratorio permanente e
di un format ripetibile, che possa “rendere l’intera città un museo diffuso dove tutto abbia un
senso, dove ogni opera dialoghi con quel contesto, dove le sculture possano
creare simbologie non solo estetiche”.
Il
progetto Contemporary Times, a Roma, ha mostrato, seppure in modo episodico,
una possibilità per l’arte di collocarsi all’interno dei flussi urbani. Ha indicato la prospettiva di arricchire attraverso tracce
culturali gli snodi delle articolazioni produttive, gli interstizi di tempo e
di spazio che si aprono dentro i grandi
movimenti di merci, informazioni, individui, segni.
Sfruttando
l’eccezionalità della sua architettura la metropolitana
di Mosca si apre frequentemente a eventi e incontri culturali. Dal 1 giugno
2007 attraverso la rete metropolitana moscovita circola Akbarel, un convoglio trasformato
in una galleria d’arte in movimento,
e da poco istituito come spazio espositivo permanente. Espone opere di artisti
del XVIII, XIX e XX secolo, percorrendo ininterrottamente una rete attraversata
ogni giorno da una media di 6,6 milioni di persone: vera e propria città
sotterranea, specchio e inconscio della
città emersa.
Anche
New York indaga attraverso la
pratica artistica il proprio inconscio urbanistico: The underground: notes è un
progetto di produzione cinematografica
indipendente che assume la metropolitana come set e insieme come serbatoio
di significati. In fuga dalle inerzie economiche e progettuali del mainstream un
collettivo di registi e attori trentenni ha deciso di lavorare su produzioni a basso costo e a elevata agilità realizzativa, secondo programmi di lavorazione
serrati e vincolati da scadenze rigorose. Ogni due settimane una storia, pensata e girata dentro la
precarietà e la frenesia dei ritmi urbani. Ricavando intervalli di senso nel flusso anonimo della subway, infrastruttura
che pompa linfa umana nelle vene della città, ma anche luogo di residui,
scarti, smarrimenti, alienazioni. “Per ora siamo concentrati sulla produzione”
dice uno dei componenti del gruppo, “ma vorremmo creare un network internazionale con gruppi simili al nostro nelle principali
città del mondo.” Un’operazione che permetterebbe di tracciare una cartografia sotterranea delle città, costruita catturando frammenti di esistenza altrimenti assorbiti dall’informe del magma urbano.
Le
pratiche artistiche che si inscrivono nei contesti urbani, che riflettono sulla
relazione tra l’opera d’arte e l’ambiente, possono dire qualcosa sul presente
della città, del quale la presenza dell’arte rivela i punti di tensione. L’arte
si colloca dentro la città come ipotesi
progettuale. La sua interpretazione dello spazio produce uno scarto
rispetto all’esistente urbanistico, e suggerisce modelli di trasformazione.
Sospesa
nel limbo di una ricostruzione che probabilmente, nella sostanza progettuale,
non è mai cominciata, L’Aquila cerca di suturare
i tessuti urbani e sociali ricorrendo alle arti figurative e alla poesia.
Poesia di strada in realtà aumentata è una mostra che “espone”, disseminandole
nello spazio della città, installazioni
artistiche virtuali accessibili attraverso dispositivi mobili,
sovrapponendo al significato dei luoghi fisici quello di luoghi della mente che
aumentano la realtà e potenziano le facoltà percettive. Le lacerazioni della
città diventano fessure per accedere a un’altra dimensione, dentro un impasto
di tracce materiali e segni della cultura. Per spingere lo sguardo oltre la
superficie delle cose, visualizzando una
possibilità di ricostruzione che non riguardi soltanto gli edifici.
All’ordine
delle possibilità, alla ricostruzione come auspicio allude anche l’auditorium provvisorio costruito a L’Aquila da Renzo
Piano. Progettata completamente in legno (lo stesso legno usato per la fabbricazione dei violini Stradivari), concepita come intervento
reversibile, la struttura si colloca nel Parco del Forte spagnolo, e dovrebbe
essere dismessa quando il vecchio auditorium del Forte sarà rimesso in
funzione. Anche se la città potrebbe scegliere di mantenerla e di “raddoppiare”
simbolicamente lo spazio. L’auditorium di Piano è anch’esso una realtà aumentata: afferma un’intenzione,
indica una direzione, integra la necessità di recuperare ciò che è stato con
l’opportunità di immaginare ciò che potrebbe essere.
L’urgenza di progettare la ricostruzione sarà il tema
fondamentale degli Stati generali dei
Beni Culturali: L’Aquila7 ottobre – storici dell’arte e ricostruzione civile, un’iniziativa autoconvocata
dagli operatori del settore con l’obiettivo di coinvolgere le istituzioni e
richiamare l’attenzione sulle responsabilità che scaturiscono dall’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica
promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela
il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” “Lo stato terribile dell’Aquila”, si legge nel comunicato dei
promotori, “divisa tra monumenti annullati e new towns di cemento, è una metafora perfetta di un Paese che
affianca all’inarrestabile stupro edilizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico
monumentale, condannando cosí all’abbrutimento morale e civile le prossime
generazioni.”
“C’è
una nuova moda tra i potenti”, ha scritto Salvatore Settis il 31 luglio su
Repubblica: “profanare Venezia”. Il
profilo urbano descrive l’andamento dei conflitti che determinano l’esistenza
di una città. I processi di appropriazione della città come spazio simbolico, secondo l’accusa di
Settis, stanno producendo a Venezia lacerazioni violente e prepotenti
discontinuità, affermando la sopraffazione del presente, e delle sue esigenze
meno lungimiranti, sul passato e sulla profondità storica. Venezia viene
oltraggiata dalle enormi navi che
si insinuano nella laguna a beneficio dei turisti. Il Fondaco dei Tedeschi,
acquistato da Benetton, viene
stravolto non tanto nella sua destinazione (commerciale da secoli), ma nel significato
della sua architettura: Rem Koolhas, architetto incaricato della
ristrutturazione, forza programmaticamente il contesto per affermare l’emergenza del moderno. Infine, il
progetto dell’imprenditore Pierre Cardin per Marghera: un Palais Lumière alto 250 metri, per una superficie totale di 175.000
metri quadrati, tre torri intrecciate per 60 piani abitabili, destinato a
ospitare un’università della moda, e poi alberghi, ristoranti, appartamenti,
centri congressi, impianti sportivi. Una torre
babelica, secondo Settis, che sovrasterebbe di 140 metri il campanile di
San Marco, incidendo violentemente lo skyline della città.
A
Settis non sfugge l’opportunità,
implicita nel progetto, di risanare un’area industriale disagiata e dismessa, eppure
si chiede perché le amministrazioni non accordino la priorità a disegni meno invasivi.
Rispondendosi apoditticamente: “in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del
progetto.” È una violazione simbolica, un’affermazione della potenza del contemporaneo
e delle sue capacità di rottura. Un’umiliazione che il presente vuole infliggere
al passato. Un ricatto che l’economia impone alla politica, al pubblico e ai
suoi vincoli di legalità, assecondando un processo di privatizzazione della città in cui emergono gli istinti anarchici e
antisociali del tardo capitalismo.
Una
recente tentazione dell’altezza
sembra attraversare l’Italia, terra di campanili che non hanno ancora fatto
posto ai grattacieli. Torino, Milano, Bologna, Savona, Venezia: un rincorrersi verticale che riproduce la corsa
medievale alla rappresentazione del potere attraverso le torri. Nel Novecento la
vertigine verticale ha guidato l’architettura all’inizio e alla fine del secolo,
dicendo il sogno di dismisura del capitalismo
e la sua vocazione fallica. Il trauma dell’11 settembre e i dissesti economici coi
quali si è aperto il nuovo millennio sembravano suggerire un ripensamento in senso orizzontale degli
spazi e dell’organizzazione sociale. Ma gli “strattoni” prodotti dal
capitalismo per uscire da una delle sue involuzioni di sistema passano forse anche
attraverso uno slancio verticale, una nuova
affermazione d’altezza che respinge in basso le richieste di riforme
strutturali.
Del
resto, ammonisce Luca Nannipieri, non c’è trasformazione possibile senza infrangere i vincoli dell’esistente.
Non c’è futuro senza fluidificazione del presente, e riscrittura del passato.
Gli allarmi dei conservatori sono azioni “a difesa di tutto quello che è e che
tale deve restare”. Politiche di “opprimente
e deprimente” tutela che finiscono per mummificare l’Italia. “Da sempre le
città sono realtà trasformate e da trasformare. Da sempre i loro confini, le
loro identità, le loro mura, i loro palazzi, i loro perimetri sono stati
ridiscussi, abbattuti, ritrascritti, riveduti, perché non esiste una conservazione che si antepone alla vita, se non a
patto di sopprimerla, di renderla irrespirabile, appunto mummificata. Le
bellezze sono da sempre bellezze contese, comprate, vendute, contrattualizzate,
oggetto di affari, profitti, guadagni, perché dove non ci sono guadagni e profitti non c’è attività umana.”
Ogni
città modifica continuamente il proprio presente, ridefinendo le forme che lo
descrivono. Bloccare questo processo significa svuotare le città del proprio
significato, separarle dal flusso dell’attività umana. “Tutte le piú grandi
città sono diventate piú affascinanti e moderne dopo che vi sono state
costruite opere disturbanti, che
rompevano la visione ormai acquisita degli spazi.” La ridefinizione attiva
degli spazi urbani passa anche attraverso la loro improvvisa, spesso violenta,
“profanazione”. Che è profonazione soltanto del nostro “eccesso di quiete nella comprensione del passato e del presente”.
La
sostenibilità degli interventi
architettonici è una contrattazione sul confine instabile tra esigenze di tutela e necessità di rinnovamento. “Spesso l’architettura
che fa pensare rinuncia a costruire”, dice Gianni Pettena, artista “architettonico”
che riflette sul nesso tra sostenibilità e reversibilità
degli interventi. Non sempre la reversibilità coincide con la sostenibilità. L’arte è spesso irreversibile in quanto
si inserisce in “un contesto che viene visivamente modificato e concettualmente
sviluppato”. Senza modificazione visiva e
sviluppo concettuale non si dà intervento artistico. “Non è solamente
importante la conservazione del contesto, ma anche la traccia della sua
modifica attraverso l’accentuazione
della qualità dell’esistente.” Con la sua opera Ice house IPettena
ha congelato un edificio scolastico dismesso, creando una metafora della
sostenibilità architettonica, sperimentando un intervento capace di modificare,
e rivitalizzare, senza stravolgere destinazioni e significati. “La
sostenibilità non dice mai di no”:
cerca invece di affermare, “attraverso il coinvolgimento di critici e di
competenze collettive”, la possibilità degli uomini di incidere “il proprio segno nel mondo” senza distruggere o
impoverire i contesti.